venerdì 26 marzo 2010

TRA LE NUVOLE

Storie di un Peter Pan del XXI secolo

Regia di Jason Reitman. Con George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick
Commedia, 109 min. - USA 2009



“Con lo zaino vuoto, avrei capito meglio cosa rimetterci dentro...”

Ryan Bingham (George Clooney) è un uomo d'affari privo di qualunque relazione affettiva e sempre in viaggio da una città all'altra degli Stati Uniti, con un preciso dovere: licenziare. Entusiasta della propria libertà, Ryan, fra check-in aeroportuali e spietati colloqui lavorativi di “addio”, trova tempo anche per fare piacevoli conoscenze: vedi la signorina Alex (Vera Farmiga), nella quale si rispecchia perfettamente, e con la quale ha subito una fugace storia d'amore. La sua vita tra le nuvole, però, è messa a serio rischio da una brillante neo-laureata, Natalie (Anna Kendrick), che ha convinto il capo di Ryan ad adottare un nuovo sistema di licenziamento via webcam dall'ufficio, decisamente più economico. Minacciato dalla novità, comincia a riflettere sul suo stile di vita...

Jason Reitman, già apprezzato dalla critica per 'Juno', cronaca di un'adolescente alle prese con una gravidanza precoce, è stavolta impegnato in una commedia che va a toccare, in maniera indiretta (ma forse nemmeno troppo), la ferita ancora viva della crisi economica, e arruola per la causa il superdivo Clooney, trasformandolo in incubo sociale:un “tagliateste” (come egli stesso si definisce) aziendale. Un Clooney che, con una impercettibile smorfia al sorriso tiratissimo dopo aver dato un“benservito”, si rivela esser, già fin dalle prime battute, in stato di grazia. Non a caso, la performance per poco non gli ha fruttato un Oscar. Vedere, per ulteriori delucidazioni in merito, anche quando sfida la novellina al giochino del licenziamento. Non resiste, Reitman, a infilare lo scoppiettante George, dopo soli 12 minuti, sotto le coperte con colei che poi gli si rivelerà femme fatale, una buonissima Farmiga. Scontato? Potremmo anche rimproverare al regista il fatto di trattare, sebbene facendo ricorso a persone realmente congedate da breve periodo, l'argomento della perdita del lavoro con un po' troppa povertà, limitandosi allo sceneggiare la reazione dello sfortunato alla notizia, ma fermandosi li', senza affondare più di tanto il coltello (salvo poi accennare a farlo nel finale, per dare una svolta alla pellicola). Ma ciò che veramente importa a Reitman è celebrare il viaggiatore, l'uomo libero, come già suggeriscono le incantevoli inquadrature dall'alto in apertura, e, al tempo stesso, metterlo di fronte alla realtà della comunità odierna, dove, se non hai una famiglia, sì, sei un po' strano. A colpi di dialoghi mai noiosi e situazioni spassose (senza che esse ricadano mai nell'inverosimile), ecco che, partendo dal soggetto lugubre del “tagliateste”, fa il miracolo, rendendo tale soggetto attraente, perfino simpatico, fino a spogliarlo della sua giacca e della sua cravatta. Trasfigurandolo in un moderno Peter Pan, sempre in volo, sempre giovane. Reitman non cade nella trappola del facile finalone, per far contente le famigliole e le coppiette in sala, perchè, George o non George, sa di che pasta è fatto il suo personaggio principale, e, volente o nolente, oramai questo ha un destino. Il film è anche la celebrazione delle relazioni umane a quattrocchi , a discapito di quelle tecnologiche, fatte di sms e monitor.

Forse Natalie è ingenua a sognare quel principe azzurro che la società le ha disegnato a matita. Forse Ryan lo è ancora di più, sognando un'esistenza fuori dagli schemi nati dalla stessa matita.

VOTO: 7,5

domenica 21 marzo 2010

Al cinema dal 19/03



Cosa c'è di nuovo in sala? Da segnalare il ritorno di Mel Gibson nella parte di attore, e il controverso 'Il profeta'...

.E' complicato
.Fuori controllo
.Il profeta
.Io sono l'amore
.Tutto l'amore del mondo

sabato 20 marzo 2010

NORD

Il freddo viaggio nell' inquieta anima norvegese

Regia di Rune Denstad Langlo. Con Anders Baasmo Christiansen.
Commedia, 78 min. - Norvegia 2009.



“La vita è difficile, a volte. Quasi sempre, ma non per sempre...”

In una sperduta località sciistica norvegese, Jomar (Anders Baasmo Christiansen), trentenne afflitto da ansie e attacchi di panico, lavora in una stazione, dove vende skipass. Un giorno, alla sua porta, bussa una vecchia conoscenza: un “amico” che, qualche anno addietro, gli aveva soffiato la moglie. Dopo l'incontro-scontro, a Jomar viene ricordato di avere un figlioletto di soli 4 anni. Jomar, sebbene timoroso, decide di intraprendere un lungo viaggio verso nord, in sella ad una motoslitta, col preciso intento di rivedere il suo piccolo...

Atipico road-movie in salsa scandinava, questo 'Nord', che segna l'esordio alla regia del signor Rune Denstad Langlo. Il viaggio di Jomar è un viaggio di formazione, alla ricerca, ancor prima del figlio, della maturità e dell'arma per sconfiggere quelli spettri che infestano la sua mente. Dipingere questo nobile percorso interiore, dell'accendersi e del vivere, piuttosto che marcire dentro una capanna, in nemmeno 80 minuti, non deve essere stata impresa facile per Langlo. Di fatti, qualche nodo viene al pettine. L'incontro che scaturisce la partenza di Jomar, tema sul quale il film si regge, avviene in maniera un tantino approssimativa. Il vecchio amico rimarrà pressoché un'incognita, in tutta la pellicola. Ammesso ci sia bisogno di questa figura, comunque, i problemi psicologici del protagonista vengono dimenticati un po' troppo alla svelta. Passate le prime sequenze di viaggio, Jomar appare fin troppo intrepido, per un personaggio che, fino a qualche minuto prima, lo si vedeva in cura in un centro psichiatrico. Langlo voleva forse raccontare l'eterna solitudine che circonda l'essere umano? Considerando le tre persone che Jomar incrocia nel suo cammino, così parrebbe. Ancora, ci sarebbe voluto un po' di più tempo, per dare il giusto rilievo a queste macchiette. Il risultato, con qualche salutare venatura comica, è tutto sommato soddisfacente. Se però Langlo ha voluto fare un film, con protagonista principale una natura mostruosa e al contempo solenne, che impaurisce, separa, ostacola, affascina, nobilita, uccide, ha colto nel segno. La scenografia pallida gela, lascia esterrefatti, ed è una vera gioia per gli amanti dei deserti nordici. Il sapiente uso di un accompagnamento musicale incalzante è la ciliegina sulla torta alla produzione. Per essere al primo lungometraggio, Langle ha dimostrato già abbastanza coraggio.

VOTO: 6,5

giovedì 18 marzo 2010

NEWS!!! Spencer & Hill, David Fincher, Conan il Barbaro, Ghostbusters III, L'Hobbit




L'ormai novantenne Tonino Guerra e l'indimenticabile coppia Bud Spencer e Terence Hill, verranno insigniti del David di Donatello. Così è stato deciso dal Consiglio Direttivo dell'Accademia del Cinema Italiano, per gli indubbi meriti artistici dei tre illustri signori. Guerra ha firmato diverse sceneggiature di grandi registi del passato (Antonioni, Visconti, Fellini), mentre Spencer e Hill...bisogna spendere parole per loro???

David Fincher si dà agli scacchi. Il brillante regista di 'Seven' e 'Fight Club', girerà un film drammatico sulla sfida tra i due scacchisti Boris Spassky e Bobby Fincher. Titolo del film: Pawn Sacrifice. Girano voci di un suo coinvolgimento anche per il remake a stelle e strisce di 'Uomini che odiano le donne'.

A proposito di remake. Per chi non lo sapesse (io per esempio, non ne ero al corrente!) sta prendendo forma una nuova versione di 'Conan il Barbaro'. Ovviamente, niente Arnold. Il lavoro è stato messo nelle mani del regista Marcus Nispel, e vedrà la partecipazione di Ron Perlman e Jason Mamoa. Si comincia a girare a giorni, in Bulgaria...

E ancora, visto che siamo in tema, parliamo di 'Ghostbusters 3'! Ivan Reitman, storico regista dei primi due episodi della saga, pare sia stato silurato dalla Columbia, che preferirebbe putare su un regista emergente. I vecchi protagonisti, interpretati da Murray e Aykroyd, dovrebbero comunque essere sempre presenti. C'è tuttavia tempo: si aspetta ancora la stesura del copione...

Dovrà attendere invece qualche mese, Guillermo Del Toro, per mettere mano sulla macchina da presa. Sono previste per Giugno le prime riprese de 'L'Hobbit', che vedrà la sua sceneggiatura arricchita dal contributo del 'Signore degli Anelli' Peter Jackson. Ian McKellen sarà ancora Gandalf, per la gioia degli ammiratori della trilogia jacksoniana.

(fonte: comingsoon.it)

mercoledì 17 marzo 2010

L'UOMO CHE FISSAVA LE CAPRE

C'era una volta in Iraq...

Regia di Grant Heslov. Con George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges, Kevin Spacey, Commedia, 93 min. - USA, 2009



“Se cambi il mondo...devi cambiare gli eserciti”

La tranquilla vita del giornalista Bob Wilton (Ewan McGregor) viene sconvolta, quando sua moglie decide di lasciarlo per il suo superiore. Disorientato, prende la decisione di partire per l'Irak, nel bel pieno dell'occupazione americana, alla ricerca dello scoop in grado di lanciare la sua carriera, finora piuttosto anonima. Incontra così il curioso Lyn Cassady (George Clooney), ex-soldato dell'esercito USA e membro, negli anni '80, di una sezione specializzata in sviluppo di capacità extra-sensoriali. Bob accompagnerà Lyn alla ricerca del suo mentore Bill Django (Jeff Bridges), fondatore dell'unità speciale, alla ricerca dell'ambito servizio sensazionale...


Impresa non semplice, quella di girare un film comico su una guerra ancora così attuale (e così tragica) come quella irachena. Ma ugualmente poco agevole, deve essere girare un film che prenda di mira l'esercito americano con una efficace, tagliente satira. Grant Heslov riesce ad avvicinarsi alle vette toccate da Altman con 'M.A.S.H.'? La sceneggiatura prende spunto da un fantomatico progetto su poteri paranormali, approvato dal governo a stelle strisce, all'indomani della seconda guerra mondiale. Spunto intrigante, e lo sviluppo della trama a flashback, sparsi qua e là, rende fluida l'ora e mezzo di pellicola. Peccato, però, che il film perda valore per diversi aspetti, tutt'altro che secondari. Innanzitutto, fattore essenziale per un film catalogato sotto il genere “comico”, il livello delle battute. Se è vero che ci sono alcune gag talmente nonsense (su tutte, il metodo Echmayer) che potranno strappare sincere risate, in generale l'odore di aria fritta è forte. La stessa aria fritta che circonda Jeff Bridges, alle prese con un personaggio palesemente ispirato a quello interpretato ne 'Il Grande Lebowsky', purtroppo poco sviluppato e lasciato in penombra, tanto da infangare quasi la memoria del “Drugo”. Vorrebbe probabilmente urlare "Fate l'amore, non la guerra", ma rimane strozzato. Potremmo anche spingerci più in là, ed affermare di quanto sia poco credibile questa figura dentro l'esercito, se ci scordammo dell'intento satirico di 'L'uomo che fissava le capre'. Intento satirico che s'infrange piuttosto clamorosamente nei 10 minuti di stereotipata sparatoria, che fanno tonfare a terra la credibilità del film. L'epilogo delle scorribande del nostro duo si affida ad un facile paradosso, che però infondo funziona benino. Ma Heslov scivola ancora: nel tirare le doverose conclusioni del suo lavoro, che tocca materia un po' delicata, dedica troppo pochi minuti. Tutto da buttare, allora? Altman rimane lontano, ma non si può ignorare il lavoro svolto da un eccellente cast dove, oltre al cartoonesco McGregor e al preciso Spacey, brilla la prestazione di Clooney, che dimostra di sapersi calare molto bene anche nei ruoli scanzonati (chi lo dubitava, dopo 'Fratello dove sei?'?). Le citazioni cinematografiche ('Star Wars') e Zen, sono piacevoli sfumature. Parrebbe quasi che 'L'uomo che fissava le capre' sia stato girato un po' in fretta. Niente di imprescindibile, ma qualcuno si divertirà comunque.

VOTO: 5,5

venerdì 12 marzo 2010

THE HURT LOCKER

Il deserto nel cuore del soldato

Regia di Kathryn Bigelow. Con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Guy Pearce, Ralph Fiennes.
Drammatico, 131 min. - USA 2008



“...lanci il dado, e non sai come va...”

Irak. Il soldato William James (Jeremy Renner) è chiamato sul fronte in sostituzione di un collega, deceduto mentre svolgeva la sua stessa, pericolosissima, funzione: quella del disarmo delle bombe. James è, infatti, un artificiere. A fiancheggiarlo nelle sue manovre, ci sono il sergente Sanborn (Anthony Mackie) e il soldato Eldridge (Brian Geraghty). James , a dispetto del suo precedessore, pare non badare molto alle doverose prassi e precauzioni che comportano il delicato compito, ponendo a repentaglio così anche la vita dei suoi compagni più vicini: cosa che, ovviamente, non gli accattiva molte simpatie, soprattutto da parte di Sanborn. Man mano, fiancheggiandosi in numerose missioni, il trio comincerà ad entrare in sintonia e, infine, ognuno svelerà la propria natura nei confronti della guerra.

La regista Kathrin Bigelow, la 'maschiaccia' della macchina da presa ('Strange Days', 'Point Break'), parte dall'elaborato del giornalista d'inchiesta Mark Boal per ergere un film di guerra dai chiari intenti introspettivi/psicologici. Un esame nel quale si addentra solo verso la seconda ora (abbondante) del film, forse con un poco di ritardo. Certo che, i primi 70 minuti, senza elevarsi a cime epiche del genere, sono pervasi da una costante tensione sottocutanea, anticipata già in apertura dal battito di un cuore. Brava con inquadrature e zoomate (azzeccate nel contesto), penetrante la scenografia, la Bigelow fa comunque breccia meglio nel dipingere una sparatoria fra cecchini nel deserto, piuttosto che nel rappresentare ciò che costituisce il tema principale della sua fatica, ovvero il disinnesco delle bombe, dove tira aria un po' di scontato. Il soldato James può apparire un personaggio da film d'azione degli anni '80 in principio, ma è probabilmente proprio lui a trascinare la regista al trionfo negli Oscar. Insensibile al pericolo, si disfa di una tuta da astronauta che pretenderebbe proteggerlo da uno spazio alieno, minaccioso, ed entra in pieno contatto con le sue “amichette”. E mentre parla con la bomba che potrebbe polverizzarlo, attorno a lui c'è chi si preoccupa di qualche iracheno con la videocamera. Tanto geniale nel suo ambito, quanto non a suo agio nelle relazioni con gli altri: vedi i costanti, forzati, “Sto scherzando”, vedi la moglie e il figlio abbandonati da qualche parte negli States. E qua si vede l'uomo. Lo stesso (piccolo?) uomo che si piega sotto l'acqua della doccia, costretto a fare i conti con quella spietata “unica cosa che ama”, quella unica cosa che un giorno potrebbe portarlo in un bianco “magazzino della morte”, come il collega Thompson. Tanto geniale nel suo ambito, quanto impacciato nel mettere prodotti alimentari in un carrello. Se sia Eldridge, che pare pavido già fin dalle prime battute, che Sanborn, che capitola moralmente verso la fine, dinanzi all'orrore, sognano il ritorno a casa, il nostro artificiere è fatto di pasta diversa, e sogna l'esatto contrario. La Bigelow nel suo film non vuole nemmeno più di tanto giudicare o denunciare, quanto raccontare un'altra realtà che si cela nelle guerre: la dipendenza da adrenalina provocata dall'azione di guerra, dal vivere una vita da funamboli, dell'oggi ci sei, domani no. Ed ecco che James ci ricorda una versione (chiaramente più lucida mentalmente) di Nick de 'Il Cacciatore' di Cimino, schiavo della roulette russa. La regista finisce per calcare terreni già battuti in precedenza da alcuni grandi film bellici? Diciamo che se non li calca, ci si accosta parecchio. Motivo per il quale, premiare 'The Hurt Locker' con 6 Oscar, per quanto convincente, pare un pochetto eccessivo.

VOTO: 7

martedì 9 marzo 2010

La notte degli Oscar 2010...




Vi staranno ancora sanguinando le orecchie a forza di averlo sentito, quindi se lo ve lo faccio leggere non vi faro' certo male: l'edizione 2010 degli Oscar sarà principalmente ricordata come quella nella quale, per la prima volta, una donna si è portata a casa il premio come Miglior Regia (e ovviamente Miglior Film). E che donna: trattasi infatti di Kathryn Bigelow ('Strange Days', 'Point Break'), ex-moglie di un certo James Cameron. Proprio lui. Proprio Mister Avatar, Mister Titanic, Mister Soldi a Palate, ma soprattutto Mister Cannibale, pronto a fare scorpacciata di statuette nella fatidica notte. Invece, il suo film-corazzata 'Avatar' è capitolato di fronte al ben piu' umile 'The Hurt Locker' (provvedero' al piu' presto a recensire entrambi...), tetro movie su una squadra di artificeri operante in Irak, che ha come mamma proprio la vecchia fiamma di Cameron. Pare vagamente il copione di 'Rocky IV', ma potrebbe addirittura trattarsi di mera coincidenza, per un premio cinematografico che, negli ultimi anni, tende a premiare pellicole piu' "difficili" (e castigare, brutto a dirsi, le più "hollywoodiane" e vincenti al botteghino), avvicinandosi a scelte piu' simili a quelle dei grandi festival del Vecchio Continente.
Comunque: 'The Hurt Locker' 6 - 'Avatar' 3. A timbrare il cartellino per il kolossal è toccato al nostro Mauro Fiore (Miglior Fotografia), che si è lasciato scappare un "Viva l'Italia" nel ritirare l'ambito pelato d'oro. Ma quanto siamo ganzi, eh? Tinte tricolori, per rimanere in tema, anche nel premio per la miglior colonna sonora, by tale Michael Giacchino, italoamericano che si è prestato per il cartone Disney 'Up'.


Passando alle statuette per le interpretazioni, finalmente trionfa il "Drugo" Jeff Bridges, per il ruolo di cantante country fallito in 'Crazy Heart'. 4 candidature andate a vuoto, 50 anni di carriera (ha esordito molto giovane in televisione): tanto c'è voluto al buon Jeff, per soffiare la statuetta all'altro favorito, George Clooney (ovviamente a braccetto con la nostra Elisabetta), candidato con 'Tra le Nuvole'. Sul versante femminile, gloria per Sandra Bullock, per 'Blind Side', dove recita la parte di una madre adottiva di un problematico ragazzo afroamericano. Anche per lei record, nel bene e nel male: qualche giorno fa aveva vinto un Razzie Award (l'anti-Oscar) per una interpretazione che evidentemente non aveva fatto gridare al miracolo i critici d'oltreoceano, quella di 'All about Steve'. Ora l'Oscar. Non era mai successo, nello stesso anno, per un interprete,ricevere entrambi i premi.


Mi sento poi in dovere di spendere qualche parola per il vincitore della sezione Attore Non Protagonista, l'austriaco Chris Walz, o meglio il colonnello nazista Hans Lada in 'Inglorious Bastards'. Interpretazione stellare la sua, tanto che se il suo personaggio fosse stato protagonista, credo che per il simpatico Bridges le candidature a vuoto sarebbero salite a 5. Personaggio, appunto, nato dal genio di Tarantino, che in 'Inglorious Bastards' era stato forse un tantino autocitazionista nella caratterizzazione degli altri personaggi principali. L'azzeccata figura del colonnello sadico era forse l'elemento di spicco dell'intera opera, e non a caso l'Academy ha dato la sua benedizione (e ha dato ragione al sottoscritto). Unico, piccolo, motivo di gioia per il regista di 'Pulp Fiction', visto che è risultato il vero sconfitto della serata (8 candidature, solo 1 premio).

Per il resto, Oscar come Attrice non Protagonista Mo'nique (altra scelta controcorrente: cercate una foto della tipa...) per 'Precious', Miglior Lungometraggio d'Animazione ad 'Up', Oscar per il Trucco a 'Star Trek'(assegnato con una simpatica gag di Ben Stiller stile Na'vi), Miglior Film Straniero l'argentino 'El secreto de sus ojos'.
Inevitabile considerazione finale: ma a James Cameron quanto importa di qualche premio Oscar in piu', dopo quelli di 'Titanic', e, in particolar modo, dopo che il suo nuovo filmino ha incassato qualcosa come due miliardi e mezzo di dollari ad oggi? Probabile che l'abile regista già avesse fiutato l'aria che tirava ad Hollywood i giorni precedenti all'assegnazione, e avesse cercato altri motivi per cui rallegrarsi. Senza dubbio, non ha fatto molta fatica a trovarne.

P.S.: No, "Gran Torino" di Eastwood non ricadeva sotto questa edizione degli Oscar, ma alla passata. E non vinse niente comunque. Lynchiani misteri.


http://oscar.go.com/

DISTRICT 9

Regia di Neill Blomkamp. Con Sharlto Copley, David James, Jason Cope
Fantascienza, 112 min. - USA 2009.



"Non sono neanche di questo pianeta!"

1982, Johannesburg. Un'imponente astronave aliena staziona, misteriosa, per diverse settimane, sopra le teste dei cittadini sudafricani. Le autorità decidono infine di inviarvi una task-force per fareluce sulla reale situazione. La spedizione scopre sull'astronave centinaia di creature mostrose, malridotte e denutrite, che vengono portate in seguito a terra e stanziate in un apposita area, il "district 9". Con gli anni i rapporti tra popolazione aliena e popolazione umana si fanno sempre più tesi: la prima stanca di vivere segregata in un enorme recinto, la seconda insofferente verso esseri tanto diversi. Viene pertanto deciso di spostare gli alieni in una zona più distante dalla città. Il "trasloco" viene commissionato alla Multi-National United, compagnia bramosa di mettere le mani sulle tecnologie aliene, che a sua volta affida le redini dell'operazione all'impacciato Wikus Van De Merwe (Sharlto Copley). Durante i lavori nel "district 9" però Wikus ha un incidente e il suo DNA viene contaminato. Si verifica in lui una progressiva mutazione aliena, dunque viene letteralmente sequestrato dalla sua stessa compagnia per una serie di test scientifici. Per evitare una fine orribile, Wikus fugge e si rifugia proprio nel "dictrict 9".


L'opera prima del giovane regista Neill Blomkamp, forte della produzione del "signore degli Anelli" Peter Jackson, prende spunto da un cortometraggio dello stesso Blomkamp datato 2005. Esordio rumoroso il suo. Raffigurare l'alieno, classicamente conquistatore nel panorama fantascientifico, come una creatura soggiogata, alla mercè degli umani, è già un buono punto di partenza (attenzione però che l'idea pare esser già di moda. Chiedere nei prossimi mesi a mister James Cameron...). Far poi "passare" lo spettatore dalla parte del peggior nemico dell'umanità, grazie al banalissimo, ma pur sempre efficace espediente della metamorfosi cronenberghiana ("La Mosca" docet), è il modo migliore per mettere in risalto il nucleo morale, che è poi il cuore pulsante, della pellicola: la tematica della discriminazione, del razzismo, del timore per il diverso. E che diverso! Blomkamp pare sproni lo spettatore ad andare oltre l'aspetto fisico e a riconoscere nello straniero quella parte più nascosta che tutti accomuna. Peccato che, nella seconda parte del film, il regista strizzi l'occhio alla platea amante di smitragliate e fuochi d'artificio, e faccia scivolare tutto in uno sparatutto splatter che, sebbene supportato da importanti effetti speciali, porta alla mente decisamente più i videogame che il cinema d'autore. E insistendo inoltre troppo nella formula "documentaristica", anche in contesti non del tutto consoni. La prova è, alla resa dei conti, comunque di spessore, e non possiamo far altro che annotarci il nome di questo ragazzo, nella speranza che nel futuro ci riservi buone sorprese...




VOTO: 6,5

DISASTRO A HOLLYWOOD

Regia di Barry Levinson. Con Robert De Niro, Sean Penn, John Turturro, Robin Wright Penn.
Commedia, 107 min. - USA 2008



Ben (Robert De Niro), prestigioso produttore di Hollywood, corre il rischio di vedere la sua reputazione andare in frantumi. Infatti, nel giro di una settimana, si ritrova fra le mani due "patate bollenti": da una parte deve riuscire a convincere uno zelante regista a tagliare una cruenta scena finale nella quale un cane viene freddamente ucciso, in compagnia di Sean Penn e che ha fatto sussultare il pubblico dell'anteprima; dall'altra, deve convincere nientemeno che Bruce Willis a tagliare una fluente barba, che ha fatto crescere per ragioni etiche-artistiche, ma che non mette d'accordo i finanziatori del film che deve interpretare. Ad agitare ulteriormente i suoi sonni ci si mette di mezzo pure l'adorata ex-moglie Kelly (Robin Wright Penn), che ha una relazione sentimentale con uno sconosciuto...

Barry Levinson firma questa commedia che dovrebbe rappresentare una satira, un "j'accuse" alla premiata ditta Hollywood, tanto luccicante per i comuni mortali che la vedono dall'esterno quanto moralmente bassa per gli addetti ai lavori, vittime o compartecipi, che muovono i suoi ingranaggi. Ma Levinson si dimostra poco incisivo: le due (buone) idee che dovrebbero rappresentare il nucleo centrale del film vengono mal sviluppate e se inizialmente possono far sorridere, dopo breve risultano ridondanti, già noiose. La sceneggiatura si appesantisce ulteriormente con il muffoso "condimento" della relazione tra Ben e Kelly, dove tutto sa di già visto. A fare lievitare un po' le quote ci pensa un efficiente cast: da Willis e Penn, che giocano a prendere in giro loro stessi, passando per il curioso personaggio di Turturro, fino allo zio Bob, che, anche senza bucare lo schermo, qua fa il suo compitino e, come sempre, lo fa benissimo. In definitiva, "Disastro a Hollywood" vorrebbe aprire la porta per farci scorgere ciò che accade dentro il grande circo californiano, peccato però che la luce sia fioca e si riesca a vedere veramente poco.

VOTO: 5

CHE - GUERRIGLIA

Regia di Steven Soderbergh. Con Benicio Del Toro,Demiàn Bichir, Rodrigo Santoro
Biografico, 131 min. - USA, Spagna 2008




“Io credo nell'uomo.”

Ernesto “Che” Guevara (Benicio del Toro), dopo il trionfo cubano, lascia l'isola nelle mani di Castro e si rifugia in sé stesso. Con alcuni uomini fidati, va silenziosamente in Bolivia, dove ha intenzione di reclutare altre leve per dar vita ad una grande rivoluzione che si protragga in tutta l'America Latina. Ma il sentiero è più impervio rispetto a quello affrontato a Cuba: la foresta boliviana, la diffidenza dei contadini, l'efficace risposta dell'esercito della dittatura, appoggiato logisticamente dagli Stati Uniti, renderanno la nuova avventura un inferno, che si concluderà in modo drammatico.

L'atto secondo della fatica di Soderbergh, dedicata alla mitica figura argentina, conferma in linea di generale le impressioni scaturite dalla visione di “Che – L'Argentino”. Soderbergh ci tiene molto alla cura delle (primitive) ambientazioni e delle vicende del nostro, ma la “guerriglia” ha un susseguirsi così veritiero, con le sue lunghe pause tattiche e i suoi lampi di sangue, che rischia di atterrare lo spettatore. Qua mancano i discorsi davanti alle platee inneggianti alla ribellione, qua mancano le interviste che illustrano la filosofia politica (e di vita) del Che: c'è invece un'atmosfera pesante, a tratti da incubo, in quel profondo verde di Bolivia, che fa lentamente affondare i sogni di gloria, e un condottiero invecchiato rispetto alle scorribande con Castro, più semplice e con meno da dire ai suoi subordinati. Ma la poesia non si fa solo di parole, e anche solo camminando e con qualche gesto, Del Toro rende al meglio onore al combattente argentino. Lo zenit si ha, ovviamente, negli ultimi 15 minuti della pellicola, dove il “Che” cade nelle mani del nemico e la sua fine tragica si compie. E' uno dei pochi spezzoni dove il cuore batte forte, in questo film, e anche se ciò avviene per ultimo, non si può dimenticare l'eccessiva meccanicità delle fasi precedenti. Soderbergh ci ha messo voglia, passione, sincerità: ciò che ne ha ricavato è forse più documentario da salotto che biografia da grande schermo.

VOTO: 6

CHE - L'ARGENTINO

Regia di Steven Soderbergh. Con Benicio Del Toro, Demiàn Bichir, Santiago Cabrera Biografico, 126 min. - USA,Spagna 2008



“...questa era una guerra che si andava preparando da più o meno 100 anni...”

Ernesto “Che” Guevara (Benicio Del Toro) è un giovane medico argentino, braccio destro dell'avvocato Fidel Castro (Demian Bichir), che si lancia nella liberazione di Cuba con un manipolo di meno di 100 uomini. Fra perdite, diserzioni, incomprensioni con Castro, la sua asma e colpi di genio tattici da grande comandante, che tanto lo hanno reso celebre, il “Che” uscirà dalla foresta cubana per conquistare Santa Clara e partire alla volta de L'Avana.

Sette lunghi anni ha speso Soderbergh per realizzare questo film biografico dedicato ad una delle più rilevanti, discusse figure del secolo scorso. Sette anni che gli hanno fruttato una sproporzionata quantità di input tanto che “Che – L'argentino” è solo la prima parte dell'opera (la seconda parte, “Che – Guerrilla”, sarà nelle sale il prossimo mese). Soderbergh ha sviluppato il proprio lavoro su due binari temporali, che visita alternativamente: uno che ci raffigura il “Che” combattente rivoluzionario dal volto anche spietato, deciso a non guardare in faccia a nessuno pur di realizzare il progetto nel quale crede, e uno che ce lo mostra in un soggiorno a New York, compiuto qualche anno più tardi, dove all'assemblea delle Nazioni Unite denunciò l'imperialismo a stelle e strisce. Questa seconda parte offre diversi spunti interessanti se si vuole conoscere il pensiero politico guevariano , peccato che lasci troppi stacchi nella scorribanda cubana del protagonista. E di fatto, la guerriglia nelle selve verdi dell'isola, per quanto ci degustino queste ambientazioni epiche, quasi memori di quel “Mission” con De Niro, procede troppo lentamente e rischia fortemente di far annoiare. Più incisiva e scorrevole la presa della città di Santa Clara. Del Toro aveva sempre sognato questa parte, e di fatto non delude le aspettative, con una performance appassionata, per nulla monocorde come qualcuno ha detto: meritatamente premiato a Cannes l'anno passato. Il fatto di esser diviso a metà pone un altro limite nel giudizio finale del film, che fra l'altro soffre forse di uno scarso approfondimento iniziale, sulle ragioni che hanno portato alla Rivoluzione, ma queste due ore di spettacolo rappresentano comunque una discreta, e abbastanza imparziale, rivisitazione della parte più importante della vita di un personaggio troppo spesso ammirato o troppo spesso odiato senza nemmeno esser conosciuto sufficientemente.

VOTO:6,5

lunedì 8 marzo 2010

FROZEN RIVER

Un film di Courtney Hunt. Con Melissa Leo
Drammatico, 97 min. - USA 2008



In un piccolo paese a confine tra lo Stato di New York e il Quebec, una donna chiamata Ray (Melissa Leo), madre di 2 figli, si ritrova abbandonata dal marito e in condizioni economiche disastrose. Col suo stipendio da lavoratrice part-time, riesce a malapena a garantire un pasto regolare per la propria famiglia. Un giorno, mentre è sulle tracce del marito, conosce per caso un'altra madre, l'indiana Lila (Misty Upham), anche lei senza marito e disagiata. Lila introduce Ray alla tratta dei clandestini, che sono introdotti in territorio statunitense attraverso il fiume San Lawrence, che d'inverno si ghiaccia e diviene una strada percorribile.

Opera prima e indipendente della regista Courtney Hunt, che le ha fruttato due candidature all'Oscar: una per la sceneggiatura, una per la miglior attrice protagonista. Concordando con la candidatura per la brava, emotivamente coinvolgente, Melissa Leo (qualcuno forse se la ricorderà in “21 grammi”), il problema del film pare paradossalmente risieda in una trama che non riesce a spiccare il volo, che pare rimanga impantanata nella neve, fermandosi a delle buone premesse. Ma nulla più, per la delusione dello spettatore. E' semmai nello sviluppo del rapporto tra Ray e Lila, “così lontane, così vicine”, che si vede quacosa di buono. Le due protagoniste, che all'inizio dello spettacolo appaiono così distanti, infine si ritrovano strettamente legate per uno status che travalica concetti come quelli di razza e cultura, ovvero la maternità. E merito ulteriore della Hunt è il dare uno spunto di riflessione riguardo all'America nascosta, quella lontana dai riflettori e dalla competenza hollywoodiana, dove la condizione della sempliciotta Ray rispecchia probabilmente, ora come mai, quella di parecchie famiglie, che vivacchiano con cene a base di pop-corn e sono costrette a “duellare” con cinici trasportatori di televisori. Ambientazione da brividi, sia per temperatura che per poesia.

VOTO: 6

GRAN TORINO

Un film di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bee Vang
Azione, 116 min. - USA 2008





“Avete mai fatto caso che ogni tanto si incontra qualcuno che non va fatto incazzare? Quello sono io...”

A seguito della morte della moglie, Walt Kowalsy (Clint Eastwood) sprofonda in una desolante solitudine, a causa dei pessimi rapporti coi figli e della mancanza di amicizie. La sua vita è fatta di lattine di birra, la compagnia della sua cagnetta, la passione per la sua Ford Gran Torino d'epoca, e un costante disprezzo per tutto ciò che è a lui diverso, per etnia o per età. Quando, una notte, salva da una aggressione il giovane Thao, componente di una famiglia cinese che abita nella casa accanto alla sua, e verso la quale Walt non perde mai occasione di mostrare ostilità, diviene l'eroe del quartiere. L'anziano comincia pianamente a cambiare atteggiamento verso la comunità asiatica, facendo da tutore a Thao, fino a salvaguardare l'incolumità dei suoi nuovi, inaspettati amici.


Il vecchio Clint si conferma, dopo averci regalato pellicole del calibro di “Mystic River” e “Million Dollar Baby”, tanto per citarne alcune, uno dei più grandi registi (e interpreti) viventi.“Gran Torino”, segna il proseguimento della sua cine-meditazione sociologica/filosofica/metafisica sulla civiltà odierna. Una meditazione che oggi, con questa sua nuova uscita, si è fatta sociologica in primis, dato che il film comincia a strutturarsi trattando della diffidenza e del pregiudizio verso ciò che (apparentemente) non fa parte di noi, incarnato qua nel vicino dagli occhi a mandorla. Ma dire che il regista si è fermato a questo punto, sarebbe riduttivo, e non possiamo ignorare i continui riferimenti alla solitudine senile e allo scetticismo religioso, per non parlare della psicologia da reduce di guerra, che offrono interessanti spunti dell' Eastwood-pensiero. Temi “pesanti”, temi che il protagonista affronta inizialmente con un atteggiamento chiuso,ombroso, ma che, come in un romanzo di formazione in versione terza età, progressivamente ha modo di comprender meglio, per così giungere a una posizione agli antipodi da quella di partenza. Senza tediar troppo lo spettatore, grazie a parentesi ironiche sparse qua e là (Eastwood pare faccia il verso a numerosi personaggi che ha interpretato quando fa il gesto della pistola con la mano), ma non riuscendo a evitare di scivolare in qualche grossolana forzatura, vedi i figli di Kowalsky: così cinici e occasionasti, ai limiti delle caricature familiari de “I Simpson”. Da buon cowboy, Eastwood sa bene come aggiungere pepe alla sceneggiatura, e lo si avverte bene nell'ultima, cavalcante, mezz'ora, e il disattendere una conclusione alla “Gli Spietati”, nella forma ma non nella morale, gli rende onore. Forse è un film più “facile” di altri che ha fatto, ma il messaggio di speranza che ci lascia quando scorrono i titoli di coda è fortissimo, come poche altre volte nella sua filmografia .

VOTO: 7,5

THE WRESTLER

Regia di Darren Aronofsky. Con Mickey Rourke, Marisa Tomei
Drammatico, 109 min. - USA 2008




“Se vivi sempre al massimo, e spingi al massimo, e bruci la candela dai due lati...ne paghi il prezzo prima o poi.”

Randy Robinson (Mickey Rourke) è un wrestler che ha oramai passato la cinquantina, dal passato sportivo glorioso e dal nome di battaglia, “The Ram”, ancora ben impresso nella memoria degli appassionati. Ma a vent'anni dagli anni del successo, Randy vive in stato di semi-povertà, e si guadagna il minimo indispensabile per tirare avanti lavorando qualche ora in un supermercato ed esibendosi in palestre scolastiche davanti a poche decine di spettatori. Proprio a seguito di uno di questi eventi, viene colto da un infarto. Randy ne sopravvive, ma il medico gli preclude la possibilità di tornare sul ring. L'attempato atleta tenta così di rifarsi una vita cercando di conquistare Pam (Marisa Tomei), una spogliarellista di un club, pure lei non più nel verde degli anni, e di riallacciare i rapporti con la praticamente misconosciuta figlia Stephanie (Evan Rachel Wood).

Premiato con il Leone d'Oro a Venezia lo scorso Settembre, l'opera di Darren Aronofsky è un doloroso affresco di un uomo solitario sul viale del tramonto, che per la passione (ma forse più per la gloria) nei confronti di uno sport (ma forse più di un'arte), ha dato alle fiamme e lasciato bruciare ciò che lo circondava, a partire dagli essenziali rapporti umani con le persone care, finendo per scottare sé stesso. I soli amici che “The Ram” si ritrova a inizio film non sono altro che compagni di capriole che, per quanto a lui affezionati, lo vedono più che altro come un'icona, un oggetto di culto, di un'altra dimensione rispetto alla loro. Poco importa al nostro eroe, che può sopravvivere anche solo col calore umano di una folla di trenta persone che grida il suo nome, come ammetterà lui stesso infine. Partendo da una sceneggiatura sicuramente non originalissima (quanti film sulla boxe si ritrovano con una trama simile a questa?), Aronofsky prima fa un po' di luce sui retroscena di uno sport troppo spesso facilmente bollato come fiction, poi crea la giusta atmosfera da “quando le luci si spengono”, infine leviga i personaggi del suo film creando dei soggetti tanto sciagurati quanto credibili. Il risultato finale risponde alla domanda: ma che fine ha fatto quel popolare Signor X? Pur con toni assai pessimisti, questa risposta è una risposta per diversi casi valida. “The Wrestler” è ovviamente il film di Rourke: la parte principale gli sta cucita addosso sia dal punto di vista personale che dal punto di vista estetico (da ricordare che negli anni di declino artistico Rourke si era cimentato professionalmente nella nobile arte). La sua commovente interpretazione non è forse riuscita a fruttargli l'Oscar, ma Randy “The Ram” sarà certamente ricordato per anni dai cinefili. Bravissima anche Marisa Tomei, specchio al femminile del protagonosta. Colonna sonora tutta hard-rock eighties, con in coda struggente ballatona acustica di Bruce Springsteen. Aranofsky ci sbatte in faccia la scelta fra due modelli: bruciare di gettito, come Randy e i ragazzi di “Requiem for a dream”, o spegnersi lentamente? E Randy, fa veramente la fine del perdente, rinunciando a lottare per una vita comune e gettandosi in tuffo nelle braccia dell'inevitabile? A voi l'ardua sentenza.

VOTO: 8

THE WAVE - L'ONDA

Regia di Dennis Gansel. Con Jürgen Vogel, Frederick Lau, Max Riemel
Drammatico, 101 min. - Germania 2008



“Voi dite che in Germania una dittatura non sarebbe più possibile?”

Il professore di educazione fisica filo-anarchico Rainer Weinger (Jurgen Vogel) è chiamato a condurre nel suo istituto, per una settimana “a tema”, alcune lezioni sull'autocrazia. Queste lezioni divengono però vera e propria occasione per sperimentare su un gruppo di studenti i tipici aspetti di cameratismo: divisa uguale per tutti, profondo rispetto verso il capo, auto-esaltazione, discriminazione nei confronti degli estranei al gruppo. Il “gioco” sconfina nel giro di pochi giorni le mura dell'aula, sfuggendo dal controllo del professor Weinger e producendo risvolti tragici e inaspettati.

Prendendo spunto da un esperimento svolto realmente in un liceo californiano negli anni '60, il regista Dennis Gansel prova a ritrasportarlo ipoteticamente in una scuola tedesca dei nostri giorni, con il nobile fine di mettere in guardia le giovani generazioni dallo spettro della dittatura, sempre vegeto a dispetto di quanto queste potrebbero superficialmente credere. Premessa buona, ma che Gansel evidentemente non sa ben elaborare. Il suo film infatti finisce con lo strizzare troppo l'occhio agli svariati (e scadenti) film, telefilm per adolescenti che negli ultimi anni inondano cinema e reti satellitari. Ecco dunque presentarsi lo studente belloccio di turno, il bulletto al quale papà e mamma non fanno mancar niente, la ragazzina innamorata e confusa, prima vipera poi salvatrice redenta della patria, il disadattato sociale la quale scontatissima fine si capisce già dopo le prime battute. Il tutto poi può finire per compiacere coloro che amano gridare all'allarme per il disagio delle nuove generazioni, in un film dove esse vengono dipinte grossolanamente come dedite a feste a base d'alcol e droghe, indisciplinate in classe e prive di reali rapporti coi genitori. E per giunta facilmente manipolabili da un insegnante di educazione fisica che s'improvvisa fuhrer (eccezion fatta, guarda caso, per la studentessa alternativa coi rasta!). Una regia sufficientemente incalzante e un accompagnamento sonoro tutto sommato azzeccato non bastano a risollevare le sorti del film.

VOTO: 5

FROST/NIXON – IL DUELLO

Regia di Ron Howard. Con Frank Langella, Michael Sheen, Kevin Bacon.
Drammatico, 122 min. - USA 2008.


"Sto dicendo che se è il presidente a farlo, vuol dire che non è illegale"

1977. Il conduttore britannico David Frost (Michael Sheen), nell'intento di sfondare negli USA, paese dove non riscontra buon credito, organizza, a sue spese, una intervista televisiva tanto ambiziosa quanto complessa, la quale buona riuscita lo lancerebbe di certo nella storia del piccolo schermo. Frost vuole portare davanti le telecamere niente meno che l'ex-Presidente Richard Nixon (Frank Langella), dimissionario tre anni prima a seguito dello scandalo Watergate, per fargli dichiarare, davanti al popolo degli Stati Uniti, le mai ammesse colpe a seguito dell'inchiesta che lo coinvolse. Nixon vede invece nell'intervista, al di là del lauto compenso pecuniario, una possibilità di relegare nell'ombra lo scandalo e di rimettersi in gioco a livello politico, ed accetta. L'intervista assume le tinte di un duello tra due pugili, dove alla fine l'ex-Presidente cadrà, sotto il peso delle azioni politicamente scorrette da lui compiute.

Piccola premessa: con il termine “Watergate” si fa riferimento allo scandalo scoppiato negli USA a inizi anni '70 dovuto all'abuso di potere da parte della presidenza repubblicana Nixon per indebolire e screditare il partito democratico e gli altri oppositori della Casa Bianca, mediante un massiccio utilizzo di tecniche di spionaggio e d'intercettazione.
Ancor prima di approdare nelle sale cinematografiche, questa celebre intervista televisiva era stata portata a teatro dallo sceneggiatore Peter Morgan, colpendo a tal punto il regista Ron Howard da spingerlo a farne una trasposizione per il grande schermo. Il risultato è un lavoro certamente condotto con mano capace e con gran mestiere, ma riesce veramente a coinvolgere lo spettatore (non americano), che non ha vissuto sulla sua pelle quel caso che negli anni '70 scosse così tanto l'opinione pubblica a stelle e strisce? La pellicola scorre un po' troppo al ralenti, senza regalare grosse sorprese per gran parte dei suoi 120 minuti. Per fortuna, ci pensa un immenso Frank Langella a farci emozionare. Il suo Nixon è sì sempre l'uomo forte, di carattere, che è stato capace di raggiungere la Presidenza degli Stati Uniti, ma Langella riesce a tramutarlo in pochi attimi anche in un personaggio estremamente stravolto, smarrito, caduto nell'oblio. E' il Nixon che vediamo nelle ultime scene del film, che ha appena ammesso di aver tradito il popolo degli USA, che pare abbia la faccia gonfia dopo aver preso una scaricata di ganci da parte dell'avversario, e con lo sguardo vuoto da clochard in una notte d'inverno davanti ad un fuocherello. Ma, ancor di più, è il Nixon che saluta il pubblico dall'elicottero nel momento del congedo, la cui espressione radiosa , la cui maschera sorridente, improvvisamente si scioglie a cospetto della Storia: Nixon sarà il primo (e anche l'unico, per ora) Presidente degli USA a rassegnare le dimissioni. Il film di Howard è però non solo un film sulla debacle di un politico, ma anche, e forse soprattuto, sul potere della televisione, versatile mezzo che può divenire da mero entertainment a affilato strumento di ricerca della verità e della giustizia.

VOTO:6,5

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

Regia di David Fincher. Con Brad Pitt, Cate Blanchett
Fantastico, 159 min. - USA 2008.



“Nella vita niente dura. E questo è un gran peccato.”

Benjamin Button (Brad Pitt) nasce in “circostanze particolari”. Infatti, è un neonato con una sindrome assai anomala: è già vecchio e con le tipiche malattie dell'età avanzata. Il padre, vergognandosene, lo abbandona di fronte ad una casa di riposo per anziani. Qua, una donna di colore, se ne prende subito cura, sebbene paia chiaro che la creaturina non vivrà ancora a lungo. Sorprendentemente, invece, nella casa di riposo cominciano a rendersi conto che Benjamin, anziché invecchiare, ringiovanisce. Nonostante la sua peculiare caratteristica, Benjamin vive la sua vita senza farsi condizionare troppo dal suo status di diverso. Finisce con l'innamorarsi di una nipote di una anziana della casa, la rossa Daisy (Cate Blanchett), ma questo lo porterà inevitabilmente a scontrarsi con la dura realtà...


Il film, diretto dal bravo David Fincher (“Seven”, “Fight Club”), è basato su un racconto di F.S.Fitzgerald, datato anni '20. In passato, già altri registi (tra cui anche Spielberg) avevano tentato di portare sul grande schermo la storia, non riuscendo però nell'intento. Si parte con lo shock del neonato-anziano e la sua tendenza al ringiovanimento: premessa sicuramente originale, che rende la pellicola interessante già dai primi frangenti. Ma Fincher scivola poi un po' nel banale. In pratica, prende il personaggio principale e gli fa compiere le classiche cose che fanno gli orfanelli nei romanzi. Benjamin impara a suonare il pianoforte, Benjamin va per la prima volta in un bordello, Benjamin lascia casa in cerca di nuove esperienze, etc.etc.. Il diverso sta appunto nel fatto che qua l'orfanello è (dal punto di vista estetico) un vecchietto. Può risultare certamente curioso, ma il timore che una buona idea sia stata buttata alle ortiche comincia a crescere. Fortunatamente, il secondo tempo del film, dominato dalla drammatica (altro non poteva essere...) storia d'amore tra Benjamin e Daisy, va più in profondità. Al di là dell'intreccio sentimentale, allora diviene chiaro che il film è una malinconica meditazione sulla vecchiaia, sull'inesorabile scorrere del tempo (simbolico l'orologio della stazione) e, come diretta conseguenza, sulla morte. Il legame tra i due protagonisti è certamente forte già nei primi incontri, ma paiono veramente uniti solo quando le loro età si incrociano: nel resto della pellicola sono pervasi da una cupa solitudine degli animi. Se per Benjamin questo è ovvio, per Daisy, la ballerina mondana, non dovrebbe essere altrettanto, ma la condizione del suo amato pare le si rifletta. Stravolti dai magnifici effetti speciali che li fanno quando più vecchi quando più giovani, gli attori si muovono davanti alla cinepresa in modo esemplare, ma forse, più della superstar Pitt, colpisce l' interpretazione della bellissima Blanchett, capace, trasmettendo sempre semplicità, di calarsi dal ruolo di ragazza trasgressiva a quello di apprensiva madre. Da non passare inosservati i giochi di colore nelle suggestive inquadrature del regista.

VOTO: 7

OPERAZIONE VALCHIRIA

Regia di Bryan Singer. Con Tom Cruise, Kenneth Branagh, Tom Wilkinson
Thriller, durata 120 min. - USA, Germania 2008



“Sono un soldato, servo la mia patria...ma questa non è la mia patria”

1944. Il colonnello tedesco Claus Schenk von Stauffenberg (Tom Cruise) riporta gravi ferite a seguito di un attacco degli Alleati nella campagna d'Africa. Rientrando in Germania, prevedendo l'inesorabile caduta della sua patria nel conflitto bellico, si unisce ad alcuni alti membri dell'esercito in un complotto che mira all'eliminazione del Fuhrer Adolf Hitler e al sovvertimento del sistema politico nazionalsocialista. L'eroico Stauffenberg s'immerge nella missione a tal punto da elaborare il piano, che vede l'utilizzo dell'Operazione Valchiria, originalmente creata per soffocare una eventuale rivolta popolare contro il regime, per congelare i punti di potere nazisti a Berlino, e da incaricarsi in prima persona di attentare la vita del dittatore.

Ispirato a fatti storici realmente accaduti, il film di Bryan Singer approda nelle sale dopo una tormentata gestazione, che lo ha portato ad esser posticipato nell'uscita a più riprese (il film era inizialmente previsto per Giugno 2008). E alla fine il lavoro di Singer non convince del tutto: dopo i primi 50 minuti tutto chiacchera (e sbadigli?) tra ufficiali cospiratori, la tensione comincia un po' a salire. Peccato si sappia già sin dall'inizio quale sia il finale della trama. E' certamente una discreta ricostruzione dei fatti, ma i vari personaggi principali sembrano veloci sagome che ci passano a fianco in un sabato pomeriggio dentro un centro commerciale: troppa poca introspezione, analisi psicologica per questi uomini travolti da un dramma. Inoltre, alcuni stereotipi hollywoodiani sparsi qua e là sono decisamente fuori luogo, addirittura ridicoli, per un film ambientato nella Germania hitleriana. Tom Cruise: attore senza lode (molto più celebre di altri colleghi più capaci) e senza infamia (bersaglio facile per la sua discussa vita privata), che nella carriera è riuscito ad inanellare anche qualche performance d'applauso (vedi “Eyes Wide Shut”), qua, alle prese con un personaggio sicuramente non semplice, esegue una interpretazione lineare, senza colpi di classe. L'impressione di trovarsi davanti all'agente speciale di “Mission Impossible” in costume da nazista è forte. Infine, nota di merito per la pellicola, poiché porta a conoscenza di vaste platee dell'esistenza e del coraggio di alcuni uomini che cercarono di lottare contro un mostro, a costo del tradimento e della vita.

VOTO: 5,5

MILK

Regia di Gus Van Sant. Con Sean Penn, Emile Hirsch, Josh Brolin.
Biografico, 128 min. - USA 2008



“Un omosessuale con il potere...c'è da aver paura!”

Nel 1970, il quarantenne Harvey Milk (Sean Penn), omosessuale dichiarato, scappa da New York, con il suo compagno Scott Smith (James Franco), verso San Francisco, alla ricerca di un posto dove il loro orientamento sessuale sia più tollerato. I due aprono un negozio di fotografia nel quartiere irlandese-cattolico, ma ovviamente non hanno vita semplice sin dall'inizio. Milk si getta allora in politica con l'intento di lottare per il riconosciemento dei diritti e delle pari opportunità dei gay. Forte dell'approvazione anche degli eterosessuale, grazie al suo impegno in favore delle altre fasce deboli della cittadinanza, dagli emarginati agli anziani, riesce dopo alcuni tentativi a divenire il primo omosessuale dichiarato ad accedere ad una carica istituzionale, nel suo caso quella di consigliere. Continuerà a lottare nei valori in cui crede e mietere successi, ma il suo impegno lo porterà a sacrificare prima i suoi affetti, infine la propria vita: un ex-consigliere invidioso(Josh Brolin), in un momento di instabilità, lo ucciderà freddamente.

Gli ultimi 8 anni di vita di Harvey Milk. Quelli più importanti, visto che prima dei 40 anni “non aveva fatto niente di cui essere orgoglioso”. Gus Van Sant colpisce ancora, con un film su un tema molto personale, dove pare che tanti personaggi classici dei suoi film, smarriti, tormentanti, insicuri, per scappare da un finale tragico alla “Cowboys Drugstore” raggiungano la comunità di Castro per unirsi a Milk e cominciare ad urlare: “Guardate, ci siamo anche noi!”. E' chiaramente un film sul sogno americano, quel sogno tanto tornato attuale oggi con l'elezione di Barack Obama: “speranza”, è la parola che riecheggia nel finale del film. Sean Penn grande one man show: praticamente presente in ogni fase del film, l'ex bad boy di Hollywood offre una interpretazione impeccabile in un ruolo indubbiamente non semplice. Con quel suo sorriso un po' incredulo, un po' paternalista, che sfoggia mentre scuote il capo davanti alle facili offese ai gay, Penn darà filo da torcere all'altro favorito all'Oscar per la migliore interpretazione maschile, Mickey Rourke. Non siamo sicuramente davanti ad un film che tenga col fiato sospeso, ma non si possono non ammirare i film biografici fatti così bene, senza neanche una macchietta. La lotta di Harvey Milk non è stata la lotta solo degli omosessuali: è stata la lotta di tutti gli emarginati sociali che vogliono una vita come quella di tutti i “normali”.

VOTO: 7,5

APPALOOSA

Regia di Ed Harris. Con Viggo Mortensen, Renée Zellweger, Jeremy Irons.
Western, 116 min. - USA 2008



“La vita a volte fa in modo che quello che appare prevedibile non accada mai, e che l'imprevedibile diventi la tua vita”




Due pistoleri, il glaciale Virgin Cole (Ed Harris) e il suo braccio destro Everett Hitch (Viggo Mortensen) giungono in un villaggio apparentemente tranquillo, Appaloosa, dove in realtà un manipolo di pochi di buono, al quale capo vi è lo spietato ranchero Randall Bragg (Jeremy Irons), dissemina paura tra gli abitanti. I due vengono assolti per ristabilire la pace, ma proprio quando il loro lavoro sembra dar frutti per Appaloosa, la comparsa di una estrosa ragazza mette in crisi l'equilibrio tra Cole e Hitch.

Tratto dall'omonimo romanzo di Robert Parker, Ed Harris attore-regista costruisce un western abbastanza solido dai numerosi richiami alle opere di Sergio Leone e ai classici del genere (oppure non riesce a rifuggire i più classici degli stereotipi?). Forse alcune parti centrali della pellicola possono apparire un po' lente, ma l'azione viene meno comunque per svolgere un (buon) lavoro di approfondimento della psicologia dei personaggi principali. Punto forte del film l'accoppiata Harris-Mortensen, già insieme in “History of Violence” di Cronenberg, che ha ben poco da invidiare a Paul Newman e Robert Redford di “Butch Cassidy” e che riesce, nonostante l'atmosfera del film prevalentemente tesa, anche a far sorridere. Soprattutto Harris riesce a forgiare bene il personaggio di Cole, vecchio cowboy scontroso ma ligio al suo dovere che perde la testa (e un po' della proverbiale virilità western) per l'irriverente rossa, preda-predatrice sempre dell'uomo più forte. C'è un tocco di maschilismo forse nella sceneggiatura? Il bravo Irons un po' troppo ai margini.

VOTO: 6,5

1st post

Benvenuti sul mio blog di cinema, dove potrete leggere le mie recensioni sulle ultime uscite in sala. Sono alle prime armi con i blog, pertanto ho bisogno di prendere un poco di dimestichezza nell'utilizzo di questo moderno, potente, mezzo di comunicazione. Quale momento migliore per inaugurare un blog di cinema se non nella notte degli Oscar??? Prima di cominciare a postare le recensioni dei film piu' recenti, mi dedichero' per un po' alla pubblicazione di alcuni vecchi scritti risalenti all'anno passato, giusto per fare in modo che il blog abbia una buona base di partenza. Buona lettura...
Michele "Tronco" Basile