domenica 26 dicembre 2010

LA CALDA NOTTE DELL'ISPETTORE TIBBS

Di Norman Jewison. Con Sidney Poitier e Rod Steiger. USA 1967. Drammatico, 109 min.


Ispettore di polizia di colore, di passaggio in una cittadina del Mississippi, si ritrova suo malgrado, tra le mani, un caso di omicidio dalle fosche tinte. A complicare le indagini, ci si mettono di mezzo uno sceriffo decisamente ruvido, e lo strisciante razzismo che aleggia per le strade di provincia.
Solido poliziesco vecchia maniera, arricchito dalla tematica razziale, sempre attuale negli Stati Uniti, più di quanto la data di produzione potrebbe far presupporre. E' un film che trasuda 'americanicità' da ogni fotogramma, di bollicine di Coca Cola da una bottiglia appoggiata sul bordo della strada, dignitoso escursus che raffigura un Paese non solo fatto dalle luci delle grandi metropoli. Realtà piccola quella di Sparta in Mississippi, ma non per questo priva d'interessi concorrenti: e allora, l'esito delle investigazione può non esser così tanto scontato. Poitier è un figurino che non dimentica mai i puntini sulle 'i', Steiger vero mattatore-trascinatore: insieme formano una coppia da enciclopedia del cinema, che, fra gag ed inseguimenti, fa dimenticare pure quella pagina, relativa ai loro passati, lasciata quasi in bianco. Accompagnamento musicale, curato da Quincy Jones, al top. L'America (rurale) è vicina.

★★★★☆
4/5

mercoledì 22 dicembre 2010

LA ZONA

Di Rodrigo Plà. Con Daniel Giménez Cacho e Maribel Verdú. Spagna-Messico 2007. Drammatico, 97 min.


Città del Messico. Tre adolescenti in miseria s'intrufolano in una area residenziale altolocata off-limits, oasi per pochi privilegiati che nulla vogliono avere a che fare col disagio metropolitano. Nel tentativo di sgraffignare qualche oggetto di valore, scappa il morto. La comunità va nel panico e si scatena una convulsa caccia all'uomo, mossa dagli istinti più primitivi.
L'isolamento può portare ad esiti fatali, se la persona nel quale si chiude si ritrova poi, improvvisamente, a fronteggiare l'agente esogeno. Esattamente come succede nell'opera, coraggiosa accusa a quella parte di mondo che rifiuta il confronto e si tappa biecamente gli occhi al cospetto del disgusto e dell'orrore. Ma l'escamotage non può sempre funzionare, ed ecco che allora le barriere della 'Zona' subiscono il colpo, cominciano a piegarsi, fra le urla di terrore dei suoi protetti, e finiscono per sprofondare, lasciandosi dietro odore di morte. Nobile quindi il messaggio a favore dell'integrazione, peccato per le forzature sostanziose apportate da Plà (il contrasto tra una Città del Messico più simile a Gotham City e la paradisiaca Zona, il finale quasi scarabocchiato). Ma l'impianto funziona bene, complice una costante suspance a fior di pelle.

★★★*☆☆
3,5/5

giovedì 16 dicembre 2010

A OVEST DI PAPERINO

Di Alessandro Benvenuti. Con Athina Cenci, Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti. Italia 1982. Comico, 95 min.



Sgangherata combriccola bighellona per le strade di Firenze, alla ricerca di fantomatici piccioni-principi azzurri. Invischiandosi in situazioni paradossali, affrontando personaggi folkloristici. Col solo fine ultimo, di riempire una giornata come altre, prima di sedersi alla tavola di cena.
Umorismo agrodolce, che indugia troppo su sketch privi di senso, se non quello, sottinteso, di provare a ritrarre una generazione che ha perso la bussola (quella di oggi si rispecchia forse in quella degli anni '80?). E allora si finisce spesso col ridere a denti stretti. Nuti scimmiotta Benigni. Brilla la Cenci. Pacchianotto.

★★*☆☆☆
2,5/5

FRANK COSTELLO FACCIA D'ANGELO

Di Jean-Pierre Melville. Con Alain Delon. Francia 1967. Poliziesco, 107 min.



Storia di Frank Costello, professione killer. A seguito di un 'lavoretto', Frank viene messe sotto torchio dalla polizia. Rilasciato fra mille sospetti, dovrà guardarsi le spalle anche dal committente.
Lezione di stile del maestro francese del poliziesco. Regia e montaggio non danno nemmeno l'impressione di star visionando un film degli anni '60, sgretolando i più di 40 anni che ci separano dalla data di produzione. Ha i suoi momenti al ralenti che possono far tirare uno sbadiglio, ma sono momenti di calma elettrica, che si integrano a perfezione con l'austero 'samurai' Costello, impersonificato da Aloin Delon, che mette il pulito volto (e la bravura) a disposizione di un sicario galantuomo che muove, nell'aria delle strade di Parigi, una malinconia umana da "so già come finirà". E' anche espressione del fatto che la lotta tra crimine e forze dell'ordine si gioca sempre su un terreno sporco, rimanendo comunque sobrio, senza lasciar spazio a rocambolesche scene cruenti o inutili spargimenti di sangue. Esempio di come, per un dignitoso accompagnamento musicale per un film, possano bastare due motivi per far vibrare il cuore.


★★★★☆
4/5

venerdì 4 giugno 2010

ROBIN HOOD

Il nuovo tuffo epico del tandem Scott-Crowe

Regia di Ridley Scott. Con Russell Crowe, Cate Blanchett, William Hurt, Mark Strong.
Azione, 148 min. - USA, Gran Bretagna 2010







“Ribellarsi e ribellarsi ancora. Finchè gli agnelli diventeranno leoni.”

XIII secolo. L'intrepido Re d'Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone, perde la vita durante un assedio ad un castello francese. Tra le file dell'esercito decapitato vi è anche un abile arciere, Robert Longstride (Russel Crowe), che decide di ripartire immediatamente, assieme ai suoi fidati, alla volta della patria. Nel tragitto s'imbatte però in un'unità dell'esercito inglese, caduta in seguito ad un'imboscata; il moribondo Sir Loxley, affida a Robert l'incarico di riportare la corona alla Regina Madre, e una spada all'anziano padre Sir Walter Loxley di Nottingham. Salpata la Manica, a Nottingham Robert scopre le sue vere origini e fa la conoscenza della bella Marion (Cate Blanchett). La situazione di crisi del Regno d'Inghilterra, destabilizzato in parte dal nuovo Re Giovanni Senzaterra e Senzacuore (Oscar Isaac), e in parte dal traditore Sir Godfrey (Mark Strong), che spiana la strada ad un'invasione francese, portano Robert nuovamente sul campo di battaglia.

'Robin Hood' di Ridley Scott ha aperto le danze dell'edizione 2010 del Festival di Cannes, non senza far storcere il naso a parte della critica. L'iniziale progetto dell'esperto regista prevedeva un doppio ruolo di Crowe, nei panni da un lato del mitico arciere della foresta e da un altro del suo rivale, lo sceriffo di Nottingham. Progetto poi abbandonato, per dar luce ad un film dalla struttura meno intricata. Come differenziare questo nuovo 'Robin Hood' dalla miriade di altre versioni cinematografiche del passato? Scott ci porta alle origini del mito, costruendo in pratica il prequel alle vicende nelle quali siamo soliti vedere protagonista l'arciere di Sherwood. Ovviamente, anche gli effetti speciali del XXI secolo danno una mano al regista, che spettacolarizza, con la rinomata abilità, le battaglie. Non è gioco difficile, infondo, per uno come Ridley Scott, rapire lo spettatore per un paio d'ore e teletrasportarlo in un mondo fatto di spade, cavalcate, idromele e verdi lande, e affidando il ruolo di protagonista al massiccio Crowe. Alla fine della visione, però, i problemi del film si palesano, e sul palato il gusto di polpettone è forte. 'Robin Hood' di Scott pare più un film da mero intrattenimento e pop-corn, con scarsi rilievi artistici. Gli scontri armati, sebbene carichi di adrenalina, ricordano più delle scazzottate da pub che fini esercizi di tattica e di strategia, risultando a tratti confusionari. Difficile affezionarsi anche a questi personaggi di cartapesta, stereotipi di vecchi film medievali; ecco allora dove Scott avrebbe potuto più rivolgere la sua attenzione: l'elaborazione del carattere di Robin sotto un'ottica diversa dalla classica (ne avrebbe avuto ampi margini, data l'impostazione narrativa). Pure la talentuosa Cate Blanchett pare un po' appannata, mentre Crowe si muove meglio, naturale, forse ormai avvezzo ai ruoli eroici. Ridicolo e quantomai superficiale l'accenno alla Carta dei Diritti. Meglio continuare a sgranocchiare i pop-corn senza ragionar troppo (in particolar modo, sullo stratosferico budget), allora...

VOTO: 6

giovedì 13 maggio 2010

VENDICAMI

Da Parigi con furore

Regia di Johnnie To. Con Johnny Hallyday, Sylvie Testud, Anthony Wong Chau-Sang
Azione, 108 min. - Hong Kong, Francia 2009




“Cuoco? Cuoco un cazzo!”

Honk Kong. Una famiglia, composta da un cinese, una francese e due bambini, rimane vittima di uno spietato agguato tra le mura domestiche, ad opera di alcuni misteriosi sicari. L'unica a farla franca è la donna, nonostante in drammatiche condizioni. Al padre arrivato dalla Francia, Francis Costello (Johhny Hallyday), chiede una sola cosa: far vendetta. Costello assolda allora tre criminali, al fine di scovare gli assassini. A questi si presenta come un cuoco di Parigi, ma presto emerge la sua reale identità: infatti, Costello, è un ex-poliziotto afflitto da un handicap mnemonico.

Johnnie To, maestro del cinema noir del Sol Levante, sceglie la vendetta (il titolo del film è del resto eloquente...) come tema trainante di questa sua ultima fatica. Parte col botto, stordendoci con un paio di contrasti forti: un mare di sangue che si sparge in un appartamentino pulito e ben arredato, le luci artificiali di Macao che penetrano il buio, ambientale e morale, nel quale Costello brancola. Superato l'iniziale shock, però, la direzione intrapresa da 'Vendicami' non può essere più scontata ed essenziale. Un percorso senza buche e senza ostacoli, fra i luoghi comuni del gangster-movie, verso una certamente non impensabile conclusione: siamo anni luce dalle rivincite orientali del labirintico 'Oldboy', di Park Chan-wook. To avrebbe nella manica anche la carta della memoria evanescente di Costello, peccato che tale elemento finisca per giocare un ruolo analogo poco più a quello della sua cravatta; salvo poi esser rimesso in gioco, con una certa dignità, nello scontro finale. La citazione al 'Memento' di Nolan è palese (con tanto di macchina fotografica Polaroid); l'esito poco pepato. Cosa rimane, di questo 'Vendicami'? Di sicuro, quelle tre, brillanti, scene d'azione (su tutte, un'adrenalinico scontro a fuoco al bagliore di luna), dove To manifesta finalmente un certo talento, e l'interpretazione del rocker francese Johnny Hallyday, che per quanto asciutta, calza a pennello alla figura di un fascinoso protagonista, dal volto solcato dal tempo e dagli occhi di ghiaccio. Tutto troppo poco, però, per far di questo film qualcosa di memorabile.

VOTO:6

martedì 11 maggio 2010

Uscite 07/05



In uscita questa settimana il chiaccherato docu-film della Guzzanti sulle vicende di L'Aquila, in concorso al festival di Cannes, e che il nostro Ministro dei Beni Culturali ha già dichiarato di non voler vedere...

.Aiuto vampiro
.Christine Cristina
.Dear John
.Due vite per caso
.Draquila - L'italia che trema
.Fratelli d'Italia
.Notte folle a Manhattan
.Puzzole alla riscossa
.Le ultime 56 ore

giovedì 6 maggio 2010

DEPARTURES

Death in Japan

Regia di Yojiro Takita. Con Masahiro Motoki, Ryoko Hirosue, Tsutomu Yamazaki.Drammatico,130 min. - Giappone 2008




“Con la morte non finisce niente. E' un cancello che si deve attraversare, per proseguire il viaggio...”

I sogni del giovane violoncellista Daigo (Motoki Masahiro) finiscono in mille pezzi, il giorno in cui la sua orchestra viene sciolta per mancanza di seguito. Rimasto disoccupato, decide di lasciare Tokio e trasferirsi nella suo piccolo paese natale, nei pressi di Yagamata, accompagnato dalla dolce moglie Mika (Hirosue Ryoko). Messosi subito alla ricerca di un nuovo lavoro, s'imbatte in un annuncio di un'agenzia che si occupa di “viaggi”. Quando però affronta il colloquio davanti al gelido Sasaki (Yamazaki Tsutomu), si rende conto che i “viaggi” non hanno nulla a che fare con spiagge caraibiche o città d'arte, bensì che l'agenzia in questione si occupa della cura estetica dei defunti prima della cremazione: il rito giapponese del nokanshi. Sebben con non poca incertezza , decide di divenire assistente di Sasaki. Si lascia così, pian piano, affascinare da questa raffinata arte, che però rischierà di lasciarlo isolato, abbandonato dai vecchi amici e da Mika, che vedono di mal occhio la nuova professione di Daigo.

Il giapponese Yojiro Takita si è aggiudicato quest'anno, un po' a sorpresa, l'Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera, grazie appunto a questo 'Departures'. Opera che gira attorno ad un nucleo tematico importante, generalmente poco trattato dalla stragrande maggioranza della produzione cinematografica, probabilmente per l'essere mal affrontabile e poco appetibile alle platee (al di fuori dell'ottica horror): il trapasso. Takita ci immerge in un mondo nuovo per noi occidentali; in Giappone, la pratica del nokanshi, del 'trucco' del morto, al fine di renderlo presentabile per il definitivo commiato ai cari, è assai diffusa. La fine del sogno di Daigo e della realizzazione dei suoi limiti artistici, fanno raccordo con la scoperta di un nuovo talento del protagonista, paradossalmente legato alla fine della vita. E' su questo ponte, che il regista gioca ad intrecciare le vicende dell'ex-violoncellista. Ma al di la' delle curate scene dei riti, contraddistinte dalle armoniose movenze dei celebranti, reminiscenti in qualche modo le forme del Tai-Chi, di un montaggio curato e 'orientale', e della prova di sicuro fascino di Tsutomu nei panni del capo Sasaki, il film, dopo la prima ora, comincia a trascinarsi male alla conclusione, per colpa di una trama priva di reali momenti d'interesse. Takita tenta di combattere la noia con una direzione effettivamente poetica, aiutato anche da una colonna sonora 'classica' e drammatica, ma in fin dei conti, anche quando arriva al sodo, ovvero sul pronunciarsi su questo famoso nucleo tematico prima accennato, lo fa in modo vago, e ricorrendo ad un filosofeggiare da 50 lire (vedi la morale del vecchietto del forno crematorio). Come elementi per la crescita interiore di Daigo, rimane più impresso quel rapporto con il capo Sasaki, maggiormente curato della essenziale love-story con la moglie e quella figura del padre che lo ha abbandonato da piccolo, un po' fine a sé stessa. Alla fine, Takita ha trionfato davanti all'Academy più per il coraggio di andare a toccare una tematica oscura con disinvoltura (e pure con un pizzico di humour macabro), che per altro.

VOTO: 6,5

giovedì 22 aprile 2010

SHUTTER ISLAND

Il viaggio allucinante del Signor Scorsese nella follia

Regia di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Michelle Williams
Drammatico, 138 min. - USA 2010



“Dio ci ha dato la violenza per compierla in suo nome”

1954. Due agenti federali, Edward Daniels (Leonardo Di Caprio) e il suo assistente Chuck Aule (Mark Ruffalo) vengono inviati in missione a Shutter Island, dove si trova una casa di igiene mentale all'avanguardia per criminali con elevato tasso di pericolosità. Loro compito è fare luce sulla scomparsa di una madre infanticida, misteriosamente dileguatasi, una notte, dalla propria cella. A far guida agli agenti nell'Ashecliff Hospital è il primario dell'istituto, il dottor John Cawley (Ben Kingsley), oggetto spesso di critica da parte di Edward per la scarsa disponibilità a fornire elementi d'indagine necessari per la prosecuzione del caso. Edward, sempre più tormentato da incubi e ricordi del passato, fiuta che qualcosa di molto inquietante si nasconde in realtà a Shutter Island...

Lontano dalle ambientazioni gangsteristiche che tanto lo hanno reso celebre, Martin Scorsese si dà al thriller psicologico, rileggendo in chiave cinematografica l'opera letteraria di Dennis Lehane, 'L'isola della paura', edito nel 2003. Il nome 'Martin Scorsese' è indubbiamente un sigillo di qualità, e 'Shutter Island' non fa eccezione alle legge del Maestro. Sebbene alle prese con materiale che ha pochi eguali nella sua filmografia, fin dalle prime battute riesce a far scivolare lo spettatore in un scenario allucinante e claustrofobico, grazie, ancor più che alla presenza di anime dannate che vagano davanti la sua cinepresa, ad un sapiente utilizzo di effetti luce disorientanti, e poderose manifestazioni della forza della Natura. Semmai risulta goffo, quando scimmiotta David Lynch nelle visioni oniriche di Edward: le scene sono carenti di una certa aria estatica. Scorsese, come a ben vedere ha dato dimostrazione in molti dei suoi lavori nel corso della lunga carriera, risulta molto più capace nel raffigurare la mera realtà che diviene incubo carico di adrenalina (à la 'Cape Fear'), piuttosto che nel rappresentare il sogno vero e proprio. Non a caso, una trama enigmatica ci traspone man mano negli oscuri meandri della mente, e la suspance si mantiene costante per tutta la durata di 'Shutter Island'. Senza accennare troppo agli sviluppi finali della storia, la vicenda di Edward è una tragica spirale discendente di un uomo ferito divenuto abominio (“Le ferite generano mostri”). Scorsese semina indizi qua e là nel corso delle due ore, ma la sua maestria si palesa nel lasciare fino all'epilogo il dubbio di quale sia la vera strada interpretativa della pellicola. Leonardo Di Caprio, sempre più attore feticcio di Scorsese, a volte non pare del tutto spontaneo, nei momenti più drammatici, nei punti più caldi. Meglio dunque il solido Ruffalo. Colonna sonora (giustamente) priva di quel rock 'n' roll al quale ci ha abituato il regista, che lascia spazio a una più consona classica.

Se l'obiettivo di 'Shutter Island' non è ambire all'analisi della malattia mentale di un 'Qualcuno volò sul nido del cuculo', bensì allo spargere macchioline d'inquietudine nello stato d'animo dello spettatore, allora si può ben considerare diverse spanne al di sopra della miriade di ridicoli film horror che infestano le nostre sale.

VOTO: 7,5

mercoledì 14 aprile 2010

Al cinema dal 09/04



Con un po' di ritardo, le uscite settimanali. Fra le tante, interessanti prime visioni,occhio al premio Oscar nella categoria "Film Straniero", 'Departures'...

.Basilicata coast to coast
.Il cacciatore di ex
.Departures
.Green Zone
.Piazza giochi
.Una proposta per dire si'
.Sunshine Cleaning
.L'uomo nell'ombra

CRAZY HEART

Quando Jeffrey Lebowsky incontra Randy The Ram

Regia di Scott Cooper. Con Jeff Bridges, Maggie Gyllenhaal, Colin Farrell
Drammatico,112 min. - USA 2009



“ 'Vedremo' a casa mia...vuol dire di no.”

Per le strade degli Stati di frontiera degli USA si trascina, da un piccolo club all'altro, un dinosauro del country, nome in arte Bad Blake (Jeff Bridges). Bad, 57 anni, è alcolizzato, con 4 matrimoni alle spalle e un figlio, da qualche parte nel mondo, che nemmeno conosce. La sua carriera è sull'orlo del baratro, a differenza di quella del suo vecchio pupillo, l'odiato Tommy Sweet (Colin Farrell), che riempe arene ed è preso d'assalto dalle ragazzine. A risvegliarlo dal sopore, dal disinteresse per una esistenza sempre più avviata ad una conclusione tragica, ci pensa la dolce Jean (Maggie Gyllenhaal), una giornalista che lo avvicina per un'intervista, e per il quale comincia a nutrire un sentimento che da tempo immemore non provava...

A chi interessasse, si tratta della trasposizione per il grande schermo dell'omonimo romanzo di tale Thomas Cobb. La scelta del regista esordiente Scott Cooper di affidare il ruolo di protagonista per 'Crazy Heart' al caro vecchio Jeff Bridges si è rilevata particolarmente fortunata, dato che ha fruttato, all'attore classe 1949, il tanto ambito Oscar come Miglior Attore Protagonista. In effetti, chi se non Bridges, per interpretare il ruolo di una vecchia gloria della musica country, oramai sul viale del tramonto, lui che è rimasto nell'immaginario collettivo come 'Drugo' de 'Il Grande Lebowsky' ed ha effettivamente realizzato un album country, qualche anno fa? Nemmeno Cooper se la sente di far finta di niente, tanto che l'apertura del film in un bowling sperso nel deserto è più che una citazione. Ma, più che seguire come modello la mitica tragicommedia coeniano, il regista sembra infine rifarsi a un altro film, che l'anno passato ha suscitato i pareri positivi della critica, cioè 'The Wrestler'. Ma a dispetto del gioiello di Aronofsky, la quale trama del “fallito che si redime” era sì lineare, ma sempre graffiante, pronta a sferrare colpi mozzafiato alla bocca dello stomaco, qua i fendenti scarseggiano, la traccia non regala nessun particolare colpo di scena, e ci viene riproposta la solita love-story, un patema trito e ritrito, fotocopiato da chissà quale dei centiania di film sentimentali americani. Addirittura il finale, pare una pubblicità progresso contro l'abuso di alcolici. Fortuna che ci pensi proprio Bridges (ma si badi bene, anche Farrell, che la sua particina la fa veramente bene), con la sua performance drammatica, e la colonna sonora (sarebbe stato grave altrimenti) a colorare quelle parti di film in chiaroscuro. L'allettante elemento del road-movie, costruito sull'asfalto caldo e sullo whiskey, dove si avvolge la debole trama, può costituire un altro punto a favore, per un film che, probabilmente, faceva sperare in qualcosina di più.

VOTO: 6


La canzone principale del film, anch'essa premiata dall'Academy, si intitola "The Weary Kind", ed è di Ryan Bingham. Di seguito, il link del video.

http://www.youtube.com/watch?v=NIJTU9iY2iA

giovedì 1 aprile 2010

IL PROFETA

Un romanzo di formazione...criminale

Regia di Jacques Audiard. Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif
Drammatico,150 min. - Francia, Italia 2009



Storia del diciannovenne Malik El Djebana (Tahar Rahim) , condannato a 6 anni di carcere, per un crimine che non c'è dato sapere. Dai primi mesi travagliati, in solitudine e in debolezza, all'iniziazione da parte di mafiosi corsi, anch'essi detenuti, che lo costringeranno a uccidere un altro prigioniero. La progressiva ascesa nei ranghi della cosca sotterranea, la scuola dove impara a leggere e scrivere, le pericolose missioni durante i permessi premio per buona condotta. Entrato con qualche spicciolo, con stracci come abiti, senza alcun interessato a fargli visita, uscirà dalla casa di pena completamente “riformato”.

“Il profeta” parte da una gelida critica al sistema carcerario, stando ben attento a non strizzare troppo l'occhio ai facili espedienti del genere, per raccontarci la storia della formazione del giovane Malik. E che formazione. Jacques Audiard vuole raccontare come, in gattabuia, al di là delle scuole comprensive interne, dove si lavora con quaderno e penna, la materia che meglio si apprende è quella criminale. In effetti, la vita del giovane detenuto si evolve a doppio binario: da una parte, sul binario “buono”, Malik impara l'alfabeto, conosce il significato dell'amicizia, saggia l'emozione del primo volo d'aereo; dall'altro, sul binario “cattivo”, Malik ha a che fare con traffici di sostanze stupefacenti, pistole, omicidi. Ed è proprio il secondo binario, come bene s'intuisce nella scena finale, ad avere la meglio, in un simile, subdolo, contesto. L'aspetto che più colpisce è probabilmente la lucida spietatezza con la quale i meccanismi malavitosi si svolgono. Lucidissima, perché Audiard, forse aiutato anche da conversazioni che si alternano in 3 lingue diverse e garantiscono una tenuta forte con la realtà, adotta quasi un approccio documentaristico all'argomento. Marsigliesi, regolamenti di conti, mandate di droga da Marbella: siamo di fronte a uno spaccato della criminalità odierna. Con, comunque, qualche concessione più cinematografica: le conversazioni con un fantasma in cella, le azzeccate rappresentazioni oniriche (quasi in stile surrealista), una sparatoria all'americana. Stesso discorso per quanto riguarda il montaggio: una ferrea linearità, fatta tra l'altro di bei primi piani, rotta a sprazzi da un intercalare più pulp. A ben vedere, l'unico vero rimprovero che si può muovere al regista, è quello di mischiare un po' troppo le carte del mazzo, nelle due ore e mezzo di film, correndo il rischio di disorientare lo spettatore. Un formato più smart, avrebbe reso i suoi significati (ancor) più diretti al cuore.

VOTO:7

venerdì 26 marzo 2010

TRA LE NUVOLE

Storie di un Peter Pan del XXI secolo

Regia di Jason Reitman. Con George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick
Commedia, 109 min. - USA 2009



“Con lo zaino vuoto, avrei capito meglio cosa rimetterci dentro...”

Ryan Bingham (George Clooney) è un uomo d'affari privo di qualunque relazione affettiva e sempre in viaggio da una città all'altra degli Stati Uniti, con un preciso dovere: licenziare. Entusiasta della propria libertà, Ryan, fra check-in aeroportuali e spietati colloqui lavorativi di “addio”, trova tempo anche per fare piacevoli conoscenze: vedi la signorina Alex (Vera Farmiga), nella quale si rispecchia perfettamente, e con la quale ha subito una fugace storia d'amore. La sua vita tra le nuvole, però, è messa a serio rischio da una brillante neo-laureata, Natalie (Anna Kendrick), che ha convinto il capo di Ryan ad adottare un nuovo sistema di licenziamento via webcam dall'ufficio, decisamente più economico. Minacciato dalla novità, comincia a riflettere sul suo stile di vita...

Jason Reitman, già apprezzato dalla critica per 'Juno', cronaca di un'adolescente alle prese con una gravidanza precoce, è stavolta impegnato in una commedia che va a toccare, in maniera indiretta (ma forse nemmeno troppo), la ferita ancora viva della crisi economica, e arruola per la causa il superdivo Clooney, trasformandolo in incubo sociale:un “tagliateste” (come egli stesso si definisce) aziendale. Un Clooney che, con una impercettibile smorfia al sorriso tiratissimo dopo aver dato un“benservito”, si rivela esser, già fin dalle prime battute, in stato di grazia. Non a caso, la performance per poco non gli ha fruttato un Oscar. Vedere, per ulteriori delucidazioni in merito, anche quando sfida la novellina al giochino del licenziamento. Non resiste, Reitman, a infilare lo scoppiettante George, dopo soli 12 minuti, sotto le coperte con colei che poi gli si rivelerà femme fatale, una buonissima Farmiga. Scontato? Potremmo anche rimproverare al regista il fatto di trattare, sebbene facendo ricorso a persone realmente congedate da breve periodo, l'argomento della perdita del lavoro con un po' troppa povertà, limitandosi allo sceneggiare la reazione dello sfortunato alla notizia, ma fermandosi li', senza affondare più di tanto il coltello (salvo poi accennare a farlo nel finale, per dare una svolta alla pellicola). Ma ciò che veramente importa a Reitman è celebrare il viaggiatore, l'uomo libero, come già suggeriscono le incantevoli inquadrature dall'alto in apertura, e, al tempo stesso, metterlo di fronte alla realtà della comunità odierna, dove, se non hai una famiglia, sì, sei un po' strano. A colpi di dialoghi mai noiosi e situazioni spassose (senza che esse ricadano mai nell'inverosimile), ecco che, partendo dal soggetto lugubre del “tagliateste”, fa il miracolo, rendendo tale soggetto attraente, perfino simpatico, fino a spogliarlo della sua giacca e della sua cravatta. Trasfigurandolo in un moderno Peter Pan, sempre in volo, sempre giovane. Reitman non cade nella trappola del facile finalone, per far contente le famigliole e le coppiette in sala, perchè, George o non George, sa di che pasta è fatto il suo personaggio principale, e, volente o nolente, oramai questo ha un destino. Il film è anche la celebrazione delle relazioni umane a quattrocchi , a discapito di quelle tecnologiche, fatte di sms e monitor.

Forse Natalie è ingenua a sognare quel principe azzurro che la società le ha disegnato a matita. Forse Ryan lo è ancora di più, sognando un'esistenza fuori dagli schemi nati dalla stessa matita.

VOTO: 7,5

domenica 21 marzo 2010

Al cinema dal 19/03



Cosa c'è di nuovo in sala? Da segnalare il ritorno di Mel Gibson nella parte di attore, e il controverso 'Il profeta'...

.E' complicato
.Fuori controllo
.Il profeta
.Io sono l'amore
.Tutto l'amore del mondo

sabato 20 marzo 2010

NORD

Il freddo viaggio nell' inquieta anima norvegese

Regia di Rune Denstad Langlo. Con Anders Baasmo Christiansen.
Commedia, 78 min. - Norvegia 2009.



“La vita è difficile, a volte. Quasi sempre, ma non per sempre...”

In una sperduta località sciistica norvegese, Jomar (Anders Baasmo Christiansen), trentenne afflitto da ansie e attacchi di panico, lavora in una stazione, dove vende skipass. Un giorno, alla sua porta, bussa una vecchia conoscenza: un “amico” che, qualche anno addietro, gli aveva soffiato la moglie. Dopo l'incontro-scontro, a Jomar viene ricordato di avere un figlioletto di soli 4 anni. Jomar, sebbene timoroso, decide di intraprendere un lungo viaggio verso nord, in sella ad una motoslitta, col preciso intento di rivedere il suo piccolo...

Atipico road-movie in salsa scandinava, questo 'Nord', che segna l'esordio alla regia del signor Rune Denstad Langlo. Il viaggio di Jomar è un viaggio di formazione, alla ricerca, ancor prima del figlio, della maturità e dell'arma per sconfiggere quelli spettri che infestano la sua mente. Dipingere questo nobile percorso interiore, dell'accendersi e del vivere, piuttosto che marcire dentro una capanna, in nemmeno 80 minuti, non deve essere stata impresa facile per Langlo. Di fatti, qualche nodo viene al pettine. L'incontro che scaturisce la partenza di Jomar, tema sul quale il film si regge, avviene in maniera un tantino approssimativa. Il vecchio amico rimarrà pressoché un'incognita, in tutta la pellicola. Ammesso ci sia bisogno di questa figura, comunque, i problemi psicologici del protagonista vengono dimenticati un po' troppo alla svelta. Passate le prime sequenze di viaggio, Jomar appare fin troppo intrepido, per un personaggio che, fino a qualche minuto prima, lo si vedeva in cura in un centro psichiatrico. Langlo voleva forse raccontare l'eterna solitudine che circonda l'essere umano? Considerando le tre persone che Jomar incrocia nel suo cammino, così parrebbe. Ancora, ci sarebbe voluto un po' di più tempo, per dare il giusto rilievo a queste macchiette. Il risultato, con qualche salutare venatura comica, è tutto sommato soddisfacente. Se però Langlo ha voluto fare un film, con protagonista principale una natura mostruosa e al contempo solenne, che impaurisce, separa, ostacola, affascina, nobilita, uccide, ha colto nel segno. La scenografia pallida gela, lascia esterrefatti, ed è una vera gioia per gli amanti dei deserti nordici. Il sapiente uso di un accompagnamento musicale incalzante è la ciliegina sulla torta alla produzione. Per essere al primo lungometraggio, Langle ha dimostrato già abbastanza coraggio.

VOTO: 6,5

giovedì 18 marzo 2010

NEWS!!! Spencer & Hill, David Fincher, Conan il Barbaro, Ghostbusters III, L'Hobbit




L'ormai novantenne Tonino Guerra e l'indimenticabile coppia Bud Spencer e Terence Hill, verranno insigniti del David di Donatello. Così è stato deciso dal Consiglio Direttivo dell'Accademia del Cinema Italiano, per gli indubbi meriti artistici dei tre illustri signori. Guerra ha firmato diverse sceneggiature di grandi registi del passato (Antonioni, Visconti, Fellini), mentre Spencer e Hill...bisogna spendere parole per loro???

David Fincher si dà agli scacchi. Il brillante regista di 'Seven' e 'Fight Club', girerà un film drammatico sulla sfida tra i due scacchisti Boris Spassky e Bobby Fincher. Titolo del film: Pawn Sacrifice. Girano voci di un suo coinvolgimento anche per il remake a stelle e strisce di 'Uomini che odiano le donne'.

A proposito di remake. Per chi non lo sapesse (io per esempio, non ne ero al corrente!) sta prendendo forma una nuova versione di 'Conan il Barbaro'. Ovviamente, niente Arnold. Il lavoro è stato messo nelle mani del regista Marcus Nispel, e vedrà la partecipazione di Ron Perlman e Jason Mamoa. Si comincia a girare a giorni, in Bulgaria...

E ancora, visto che siamo in tema, parliamo di 'Ghostbusters 3'! Ivan Reitman, storico regista dei primi due episodi della saga, pare sia stato silurato dalla Columbia, che preferirebbe putare su un regista emergente. I vecchi protagonisti, interpretati da Murray e Aykroyd, dovrebbero comunque essere sempre presenti. C'è tuttavia tempo: si aspetta ancora la stesura del copione...

Dovrà attendere invece qualche mese, Guillermo Del Toro, per mettere mano sulla macchina da presa. Sono previste per Giugno le prime riprese de 'L'Hobbit', che vedrà la sua sceneggiatura arricchita dal contributo del 'Signore degli Anelli' Peter Jackson. Ian McKellen sarà ancora Gandalf, per la gioia degli ammiratori della trilogia jacksoniana.

(fonte: comingsoon.it)

mercoledì 17 marzo 2010

L'UOMO CHE FISSAVA LE CAPRE

C'era una volta in Iraq...

Regia di Grant Heslov. Con George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges, Kevin Spacey, Commedia, 93 min. - USA, 2009



“Se cambi il mondo...devi cambiare gli eserciti”

La tranquilla vita del giornalista Bob Wilton (Ewan McGregor) viene sconvolta, quando sua moglie decide di lasciarlo per il suo superiore. Disorientato, prende la decisione di partire per l'Irak, nel bel pieno dell'occupazione americana, alla ricerca dello scoop in grado di lanciare la sua carriera, finora piuttosto anonima. Incontra così il curioso Lyn Cassady (George Clooney), ex-soldato dell'esercito USA e membro, negli anni '80, di una sezione specializzata in sviluppo di capacità extra-sensoriali. Bob accompagnerà Lyn alla ricerca del suo mentore Bill Django (Jeff Bridges), fondatore dell'unità speciale, alla ricerca dell'ambito servizio sensazionale...


Impresa non semplice, quella di girare un film comico su una guerra ancora così attuale (e così tragica) come quella irachena. Ma ugualmente poco agevole, deve essere girare un film che prenda di mira l'esercito americano con una efficace, tagliente satira. Grant Heslov riesce ad avvicinarsi alle vette toccate da Altman con 'M.A.S.H.'? La sceneggiatura prende spunto da un fantomatico progetto su poteri paranormali, approvato dal governo a stelle strisce, all'indomani della seconda guerra mondiale. Spunto intrigante, e lo sviluppo della trama a flashback, sparsi qua e là, rende fluida l'ora e mezzo di pellicola. Peccato, però, che il film perda valore per diversi aspetti, tutt'altro che secondari. Innanzitutto, fattore essenziale per un film catalogato sotto il genere “comico”, il livello delle battute. Se è vero che ci sono alcune gag talmente nonsense (su tutte, il metodo Echmayer) che potranno strappare sincere risate, in generale l'odore di aria fritta è forte. La stessa aria fritta che circonda Jeff Bridges, alle prese con un personaggio palesemente ispirato a quello interpretato ne 'Il Grande Lebowsky', purtroppo poco sviluppato e lasciato in penombra, tanto da infangare quasi la memoria del “Drugo”. Vorrebbe probabilmente urlare "Fate l'amore, non la guerra", ma rimane strozzato. Potremmo anche spingerci più in là, ed affermare di quanto sia poco credibile questa figura dentro l'esercito, se ci scordammo dell'intento satirico di 'L'uomo che fissava le capre'. Intento satirico che s'infrange piuttosto clamorosamente nei 10 minuti di stereotipata sparatoria, che fanno tonfare a terra la credibilità del film. L'epilogo delle scorribande del nostro duo si affida ad un facile paradosso, che però infondo funziona benino. Ma Heslov scivola ancora: nel tirare le doverose conclusioni del suo lavoro, che tocca materia un po' delicata, dedica troppo pochi minuti. Tutto da buttare, allora? Altman rimane lontano, ma non si può ignorare il lavoro svolto da un eccellente cast dove, oltre al cartoonesco McGregor e al preciso Spacey, brilla la prestazione di Clooney, che dimostra di sapersi calare molto bene anche nei ruoli scanzonati (chi lo dubitava, dopo 'Fratello dove sei?'?). Le citazioni cinematografiche ('Star Wars') e Zen, sono piacevoli sfumature. Parrebbe quasi che 'L'uomo che fissava le capre' sia stato girato un po' in fretta. Niente di imprescindibile, ma qualcuno si divertirà comunque.

VOTO: 5,5

venerdì 12 marzo 2010

THE HURT LOCKER

Il deserto nel cuore del soldato

Regia di Kathryn Bigelow. Con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Guy Pearce, Ralph Fiennes.
Drammatico, 131 min. - USA 2008



“...lanci il dado, e non sai come va...”

Irak. Il soldato William James (Jeremy Renner) è chiamato sul fronte in sostituzione di un collega, deceduto mentre svolgeva la sua stessa, pericolosissima, funzione: quella del disarmo delle bombe. James è, infatti, un artificiere. A fiancheggiarlo nelle sue manovre, ci sono il sergente Sanborn (Anthony Mackie) e il soldato Eldridge (Brian Geraghty). James , a dispetto del suo precedessore, pare non badare molto alle doverose prassi e precauzioni che comportano il delicato compito, ponendo a repentaglio così anche la vita dei suoi compagni più vicini: cosa che, ovviamente, non gli accattiva molte simpatie, soprattutto da parte di Sanborn. Man mano, fiancheggiandosi in numerose missioni, il trio comincerà ad entrare in sintonia e, infine, ognuno svelerà la propria natura nei confronti della guerra.

La regista Kathrin Bigelow, la 'maschiaccia' della macchina da presa ('Strange Days', 'Point Break'), parte dall'elaborato del giornalista d'inchiesta Mark Boal per ergere un film di guerra dai chiari intenti introspettivi/psicologici. Un esame nel quale si addentra solo verso la seconda ora (abbondante) del film, forse con un poco di ritardo. Certo che, i primi 70 minuti, senza elevarsi a cime epiche del genere, sono pervasi da una costante tensione sottocutanea, anticipata già in apertura dal battito di un cuore. Brava con inquadrature e zoomate (azzeccate nel contesto), penetrante la scenografia, la Bigelow fa comunque breccia meglio nel dipingere una sparatoria fra cecchini nel deserto, piuttosto che nel rappresentare ciò che costituisce il tema principale della sua fatica, ovvero il disinnesco delle bombe, dove tira aria un po' di scontato. Il soldato James può apparire un personaggio da film d'azione degli anni '80 in principio, ma è probabilmente proprio lui a trascinare la regista al trionfo negli Oscar. Insensibile al pericolo, si disfa di una tuta da astronauta che pretenderebbe proteggerlo da uno spazio alieno, minaccioso, ed entra in pieno contatto con le sue “amichette”. E mentre parla con la bomba che potrebbe polverizzarlo, attorno a lui c'è chi si preoccupa di qualche iracheno con la videocamera. Tanto geniale nel suo ambito, quanto non a suo agio nelle relazioni con gli altri: vedi i costanti, forzati, “Sto scherzando”, vedi la moglie e il figlio abbandonati da qualche parte negli States. E qua si vede l'uomo. Lo stesso (piccolo?) uomo che si piega sotto l'acqua della doccia, costretto a fare i conti con quella spietata “unica cosa che ama”, quella unica cosa che un giorno potrebbe portarlo in un bianco “magazzino della morte”, come il collega Thompson. Tanto geniale nel suo ambito, quanto impacciato nel mettere prodotti alimentari in un carrello. Se sia Eldridge, che pare pavido già fin dalle prime battute, che Sanborn, che capitola moralmente verso la fine, dinanzi all'orrore, sognano il ritorno a casa, il nostro artificiere è fatto di pasta diversa, e sogna l'esatto contrario. La Bigelow nel suo film non vuole nemmeno più di tanto giudicare o denunciare, quanto raccontare un'altra realtà che si cela nelle guerre: la dipendenza da adrenalina provocata dall'azione di guerra, dal vivere una vita da funamboli, dell'oggi ci sei, domani no. Ed ecco che James ci ricorda una versione (chiaramente più lucida mentalmente) di Nick de 'Il Cacciatore' di Cimino, schiavo della roulette russa. La regista finisce per calcare terreni già battuti in precedenza da alcuni grandi film bellici? Diciamo che se non li calca, ci si accosta parecchio. Motivo per il quale, premiare 'The Hurt Locker' con 6 Oscar, per quanto convincente, pare un pochetto eccessivo.

VOTO: 7

martedì 9 marzo 2010

La notte degli Oscar 2010...




Vi staranno ancora sanguinando le orecchie a forza di averlo sentito, quindi se lo ve lo faccio leggere non vi faro' certo male: l'edizione 2010 degli Oscar sarà principalmente ricordata come quella nella quale, per la prima volta, una donna si è portata a casa il premio come Miglior Regia (e ovviamente Miglior Film). E che donna: trattasi infatti di Kathryn Bigelow ('Strange Days', 'Point Break'), ex-moglie di un certo James Cameron. Proprio lui. Proprio Mister Avatar, Mister Titanic, Mister Soldi a Palate, ma soprattutto Mister Cannibale, pronto a fare scorpacciata di statuette nella fatidica notte. Invece, il suo film-corazzata 'Avatar' è capitolato di fronte al ben piu' umile 'The Hurt Locker' (provvedero' al piu' presto a recensire entrambi...), tetro movie su una squadra di artificeri operante in Irak, che ha come mamma proprio la vecchia fiamma di Cameron. Pare vagamente il copione di 'Rocky IV', ma potrebbe addirittura trattarsi di mera coincidenza, per un premio cinematografico che, negli ultimi anni, tende a premiare pellicole piu' "difficili" (e castigare, brutto a dirsi, le più "hollywoodiane" e vincenti al botteghino), avvicinandosi a scelte piu' simili a quelle dei grandi festival del Vecchio Continente.
Comunque: 'The Hurt Locker' 6 - 'Avatar' 3. A timbrare il cartellino per il kolossal è toccato al nostro Mauro Fiore (Miglior Fotografia), che si è lasciato scappare un "Viva l'Italia" nel ritirare l'ambito pelato d'oro. Ma quanto siamo ganzi, eh? Tinte tricolori, per rimanere in tema, anche nel premio per la miglior colonna sonora, by tale Michael Giacchino, italoamericano che si è prestato per il cartone Disney 'Up'.


Passando alle statuette per le interpretazioni, finalmente trionfa il "Drugo" Jeff Bridges, per il ruolo di cantante country fallito in 'Crazy Heart'. 4 candidature andate a vuoto, 50 anni di carriera (ha esordito molto giovane in televisione): tanto c'è voluto al buon Jeff, per soffiare la statuetta all'altro favorito, George Clooney (ovviamente a braccetto con la nostra Elisabetta), candidato con 'Tra le Nuvole'. Sul versante femminile, gloria per Sandra Bullock, per 'Blind Side', dove recita la parte di una madre adottiva di un problematico ragazzo afroamericano. Anche per lei record, nel bene e nel male: qualche giorno fa aveva vinto un Razzie Award (l'anti-Oscar) per una interpretazione che evidentemente non aveva fatto gridare al miracolo i critici d'oltreoceano, quella di 'All about Steve'. Ora l'Oscar. Non era mai successo, nello stesso anno, per un interprete,ricevere entrambi i premi.


Mi sento poi in dovere di spendere qualche parola per il vincitore della sezione Attore Non Protagonista, l'austriaco Chris Walz, o meglio il colonnello nazista Hans Lada in 'Inglorious Bastards'. Interpretazione stellare la sua, tanto che se il suo personaggio fosse stato protagonista, credo che per il simpatico Bridges le candidature a vuoto sarebbero salite a 5. Personaggio, appunto, nato dal genio di Tarantino, che in 'Inglorious Bastards' era stato forse un tantino autocitazionista nella caratterizzazione degli altri personaggi principali. L'azzeccata figura del colonnello sadico era forse l'elemento di spicco dell'intera opera, e non a caso l'Academy ha dato la sua benedizione (e ha dato ragione al sottoscritto). Unico, piccolo, motivo di gioia per il regista di 'Pulp Fiction', visto che è risultato il vero sconfitto della serata (8 candidature, solo 1 premio).

Per il resto, Oscar come Attrice non Protagonista Mo'nique (altra scelta controcorrente: cercate una foto della tipa...) per 'Precious', Miglior Lungometraggio d'Animazione ad 'Up', Oscar per il Trucco a 'Star Trek'(assegnato con una simpatica gag di Ben Stiller stile Na'vi), Miglior Film Straniero l'argentino 'El secreto de sus ojos'.
Inevitabile considerazione finale: ma a James Cameron quanto importa di qualche premio Oscar in piu', dopo quelli di 'Titanic', e, in particolar modo, dopo che il suo nuovo filmino ha incassato qualcosa come due miliardi e mezzo di dollari ad oggi? Probabile che l'abile regista già avesse fiutato l'aria che tirava ad Hollywood i giorni precedenti all'assegnazione, e avesse cercato altri motivi per cui rallegrarsi. Senza dubbio, non ha fatto molta fatica a trovarne.

P.S.: No, "Gran Torino" di Eastwood non ricadeva sotto questa edizione degli Oscar, ma alla passata. E non vinse niente comunque. Lynchiani misteri.


http://oscar.go.com/

DISTRICT 9

Regia di Neill Blomkamp. Con Sharlto Copley, David James, Jason Cope
Fantascienza, 112 min. - USA 2009.



"Non sono neanche di questo pianeta!"

1982, Johannesburg. Un'imponente astronave aliena staziona, misteriosa, per diverse settimane, sopra le teste dei cittadini sudafricani. Le autorità decidono infine di inviarvi una task-force per fareluce sulla reale situazione. La spedizione scopre sull'astronave centinaia di creature mostrose, malridotte e denutrite, che vengono portate in seguito a terra e stanziate in un apposita area, il "district 9". Con gli anni i rapporti tra popolazione aliena e popolazione umana si fanno sempre più tesi: la prima stanca di vivere segregata in un enorme recinto, la seconda insofferente verso esseri tanto diversi. Viene pertanto deciso di spostare gli alieni in una zona più distante dalla città. Il "trasloco" viene commissionato alla Multi-National United, compagnia bramosa di mettere le mani sulle tecnologie aliene, che a sua volta affida le redini dell'operazione all'impacciato Wikus Van De Merwe (Sharlto Copley). Durante i lavori nel "district 9" però Wikus ha un incidente e il suo DNA viene contaminato. Si verifica in lui una progressiva mutazione aliena, dunque viene letteralmente sequestrato dalla sua stessa compagnia per una serie di test scientifici. Per evitare una fine orribile, Wikus fugge e si rifugia proprio nel "dictrict 9".


L'opera prima del giovane regista Neill Blomkamp, forte della produzione del "signore degli Anelli" Peter Jackson, prende spunto da un cortometraggio dello stesso Blomkamp datato 2005. Esordio rumoroso il suo. Raffigurare l'alieno, classicamente conquistatore nel panorama fantascientifico, come una creatura soggiogata, alla mercè degli umani, è già un buono punto di partenza (attenzione però che l'idea pare esser già di moda. Chiedere nei prossimi mesi a mister James Cameron...). Far poi "passare" lo spettatore dalla parte del peggior nemico dell'umanità, grazie al banalissimo, ma pur sempre efficace espediente della metamorfosi cronenberghiana ("La Mosca" docet), è il modo migliore per mettere in risalto il nucleo morale, che è poi il cuore pulsante, della pellicola: la tematica della discriminazione, del razzismo, del timore per il diverso. E che diverso! Blomkamp pare sproni lo spettatore ad andare oltre l'aspetto fisico e a riconoscere nello straniero quella parte più nascosta che tutti accomuna. Peccato che, nella seconda parte del film, il regista strizzi l'occhio alla platea amante di smitragliate e fuochi d'artificio, e faccia scivolare tutto in uno sparatutto splatter che, sebbene supportato da importanti effetti speciali, porta alla mente decisamente più i videogame che il cinema d'autore. E insistendo inoltre troppo nella formula "documentaristica", anche in contesti non del tutto consoni. La prova è, alla resa dei conti, comunque di spessore, e non possiamo far altro che annotarci il nome di questo ragazzo, nella speranza che nel futuro ci riservi buone sorprese...




VOTO: 6,5

DISASTRO A HOLLYWOOD

Regia di Barry Levinson. Con Robert De Niro, Sean Penn, John Turturro, Robin Wright Penn.
Commedia, 107 min. - USA 2008



Ben (Robert De Niro), prestigioso produttore di Hollywood, corre il rischio di vedere la sua reputazione andare in frantumi. Infatti, nel giro di una settimana, si ritrova fra le mani due "patate bollenti": da una parte deve riuscire a convincere uno zelante regista a tagliare una cruenta scena finale nella quale un cane viene freddamente ucciso, in compagnia di Sean Penn e che ha fatto sussultare il pubblico dell'anteprima; dall'altra, deve convincere nientemeno che Bruce Willis a tagliare una fluente barba, che ha fatto crescere per ragioni etiche-artistiche, ma che non mette d'accordo i finanziatori del film che deve interpretare. Ad agitare ulteriormente i suoi sonni ci si mette di mezzo pure l'adorata ex-moglie Kelly (Robin Wright Penn), che ha una relazione sentimentale con uno sconosciuto...

Barry Levinson firma questa commedia che dovrebbe rappresentare una satira, un "j'accuse" alla premiata ditta Hollywood, tanto luccicante per i comuni mortali che la vedono dall'esterno quanto moralmente bassa per gli addetti ai lavori, vittime o compartecipi, che muovono i suoi ingranaggi. Ma Levinson si dimostra poco incisivo: le due (buone) idee che dovrebbero rappresentare il nucleo centrale del film vengono mal sviluppate e se inizialmente possono far sorridere, dopo breve risultano ridondanti, già noiose. La sceneggiatura si appesantisce ulteriormente con il muffoso "condimento" della relazione tra Ben e Kelly, dove tutto sa di già visto. A fare lievitare un po' le quote ci pensa un efficiente cast: da Willis e Penn, che giocano a prendere in giro loro stessi, passando per il curioso personaggio di Turturro, fino allo zio Bob, che, anche senza bucare lo schermo, qua fa il suo compitino e, come sempre, lo fa benissimo. In definitiva, "Disastro a Hollywood" vorrebbe aprire la porta per farci scorgere ciò che accade dentro il grande circo californiano, peccato però che la luce sia fioca e si riesca a vedere veramente poco.

VOTO: 5

CHE - GUERRIGLIA

Regia di Steven Soderbergh. Con Benicio Del Toro,Demiàn Bichir, Rodrigo Santoro
Biografico, 131 min. - USA, Spagna 2008




“Io credo nell'uomo.”

Ernesto “Che” Guevara (Benicio del Toro), dopo il trionfo cubano, lascia l'isola nelle mani di Castro e si rifugia in sé stesso. Con alcuni uomini fidati, va silenziosamente in Bolivia, dove ha intenzione di reclutare altre leve per dar vita ad una grande rivoluzione che si protragga in tutta l'America Latina. Ma il sentiero è più impervio rispetto a quello affrontato a Cuba: la foresta boliviana, la diffidenza dei contadini, l'efficace risposta dell'esercito della dittatura, appoggiato logisticamente dagli Stati Uniti, renderanno la nuova avventura un inferno, che si concluderà in modo drammatico.

L'atto secondo della fatica di Soderbergh, dedicata alla mitica figura argentina, conferma in linea di generale le impressioni scaturite dalla visione di “Che – L'Argentino”. Soderbergh ci tiene molto alla cura delle (primitive) ambientazioni e delle vicende del nostro, ma la “guerriglia” ha un susseguirsi così veritiero, con le sue lunghe pause tattiche e i suoi lampi di sangue, che rischia di atterrare lo spettatore. Qua mancano i discorsi davanti alle platee inneggianti alla ribellione, qua mancano le interviste che illustrano la filosofia politica (e di vita) del Che: c'è invece un'atmosfera pesante, a tratti da incubo, in quel profondo verde di Bolivia, che fa lentamente affondare i sogni di gloria, e un condottiero invecchiato rispetto alle scorribande con Castro, più semplice e con meno da dire ai suoi subordinati. Ma la poesia non si fa solo di parole, e anche solo camminando e con qualche gesto, Del Toro rende al meglio onore al combattente argentino. Lo zenit si ha, ovviamente, negli ultimi 15 minuti della pellicola, dove il “Che” cade nelle mani del nemico e la sua fine tragica si compie. E' uno dei pochi spezzoni dove il cuore batte forte, in questo film, e anche se ciò avviene per ultimo, non si può dimenticare l'eccessiva meccanicità delle fasi precedenti. Soderbergh ci ha messo voglia, passione, sincerità: ciò che ne ha ricavato è forse più documentario da salotto che biografia da grande schermo.

VOTO: 6

CHE - L'ARGENTINO

Regia di Steven Soderbergh. Con Benicio Del Toro, Demiàn Bichir, Santiago Cabrera Biografico, 126 min. - USA,Spagna 2008



“...questa era una guerra che si andava preparando da più o meno 100 anni...”

Ernesto “Che” Guevara (Benicio Del Toro) è un giovane medico argentino, braccio destro dell'avvocato Fidel Castro (Demian Bichir), che si lancia nella liberazione di Cuba con un manipolo di meno di 100 uomini. Fra perdite, diserzioni, incomprensioni con Castro, la sua asma e colpi di genio tattici da grande comandante, che tanto lo hanno reso celebre, il “Che” uscirà dalla foresta cubana per conquistare Santa Clara e partire alla volta de L'Avana.

Sette lunghi anni ha speso Soderbergh per realizzare questo film biografico dedicato ad una delle più rilevanti, discusse figure del secolo scorso. Sette anni che gli hanno fruttato una sproporzionata quantità di input tanto che “Che – L'argentino” è solo la prima parte dell'opera (la seconda parte, “Che – Guerrilla”, sarà nelle sale il prossimo mese). Soderbergh ha sviluppato il proprio lavoro su due binari temporali, che visita alternativamente: uno che ci raffigura il “Che” combattente rivoluzionario dal volto anche spietato, deciso a non guardare in faccia a nessuno pur di realizzare il progetto nel quale crede, e uno che ce lo mostra in un soggiorno a New York, compiuto qualche anno più tardi, dove all'assemblea delle Nazioni Unite denunciò l'imperialismo a stelle e strisce. Questa seconda parte offre diversi spunti interessanti se si vuole conoscere il pensiero politico guevariano , peccato che lasci troppi stacchi nella scorribanda cubana del protagonista. E di fatto, la guerriglia nelle selve verdi dell'isola, per quanto ci degustino queste ambientazioni epiche, quasi memori di quel “Mission” con De Niro, procede troppo lentamente e rischia fortemente di far annoiare. Più incisiva e scorrevole la presa della città di Santa Clara. Del Toro aveva sempre sognato questa parte, e di fatto non delude le aspettative, con una performance appassionata, per nulla monocorde come qualcuno ha detto: meritatamente premiato a Cannes l'anno passato. Il fatto di esser diviso a metà pone un altro limite nel giudizio finale del film, che fra l'altro soffre forse di uno scarso approfondimento iniziale, sulle ragioni che hanno portato alla Rivoluzione, ma queste due ore di spettacolo rappresentano comunque una discreta, e abbastanza imparziale, rivisitazione della parte più importante della vita di un personaggio troppo spesso ammirato o troppo spesso odiato senza nemmeno esser conosciuto sufficientemente.

VOTO:6,5

lunedì 8 marzo 2010

FROZEN RIVER

Un film di Courtney Hunt. Con Melissa Leo
Drammatico, 97 min. - USA 2008



In un piccolo paese a confine tra lo Stato di New York e il Quebec, una donna chiamata Ray (Melissa Leo), madre di 2 figli, si ritrova abbandonata dal marito e in condizioni economiche disastrose. Col suo stipendio da lavoratrice part-time, riesce a malapena a garantire un pasto regolare per la propria famiglia. Un giorno, mentre è sulle tracce del marito, conosce per caso un'altra madre, l'indiana Lila (Misty Upham), anche lei senza marito e disagiata. Lila introduce Ray alla tratta dei clandestini, che sono introdotti in territorio statunitense attraverso il fiume San Lawrence, che d'inverno si ghiaccia e diviene una strada percorribile.

Opera prima e indipendente della regista Courtney Hunt, che le ha fruttato due candidature all'Oscar: una per la sceneggiatura, una per la miglior attrice protagonista. Concordando con la candidatura per la brava, emotivamente coinvolgente, Melissa Leo (qualcuno forse se la ricorderà in “21 grammi”), il problema del film pare paradossalmente risieda in una trama che non riesce a spiccare il volo, che pare rimanga impantanata nella neve, fermandosi a delle buone premesse. Ma nulla più, per la delusione dello spettatore. E' semmai nello sviluppo del rapporto tra Ray e Lila, “così lontane, così vicine”, che si vede quacosa di buono. Le due protagoniste, che all'inizio dello spettacolo appaiono così distanti, infine si ritrovano strettamente legate per uno status che travalica concetti come quelli di razza e cultura, ovvero la maternità. E merito ulteriore della Hunt è il dare uno spunto di riflessione riguardo all'America nascosta, quella lontana dai riflettori e dalla competenza hollywoodiana, dove la condizione della sempliciotta Ray rispecchia probabilmente, ora come mai, quella di parecchie famiglie, che vivacchiano con cene a base di pop-corn e sono costrette a “duellare” con cinici trasportatori di televisori. Ambientazione da brividi, sia per temperatura che per poesia.

VOTO: 6

GRAN TORINO

Un film di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bee Vang
Azione, 116 min. - USA 2008





“Avete mai fatto caso che ogni tanto si incontra qualcuno che non va fatto incazzare? Quello sono io...”

A seguito della morte della moglie, Walt Kowalsy (Clint Eastwood) sprofonda in una desolante solitudine, a causa dei pessimi rapporti coi figli e della mancanza di amicizie. La sua vita è fatta di lattine di birra, la compagnia della sua cagnetta, la passione per la sua Ford Gran Torino d'epoca, e un costante disprezzo per tutto ciò che è a lui diverso, per etnia o per età. Quando, una notte, salva da una aggressione il giovane Thao, componente di una famiglia cinese che abita nella casa accanto alla sua, e verso la quale Walt non perde mai occasione di mostrare ostilità, diviene l'eroe del quartiere. L'anziano comincia pianamente a cambiare atteggiamento verso la comunità asiatica, facendo da tutore a Thao, fino a salvaguardare l'incolumità dei suoi nuovi, inaspettati amici.


Il vecchio Clint si conferma, dopo averci regalato pellicole del calibro di “Mystic River” e “Million Dollar Baby”, tanto per citarne alcune, uno dei più grandi registi (e interpreti) viventi.“Gran Torino”, segna il proseguimento della sua cine-meditazione sociologica/filosofica/metafisica sulla civiltà odierna. Una meditazione che oggi, con questa sua nuova uscita, si è fatta sociologica in primis, dato che il film comincia a strutturarsi trattando della diffidenza e del pregiudizio verso ciò che (apparentemente) non fa parte di noi, incarnato qua nel vicino dagli occhi a mandorla. Ma dire che il regista si è fermato a questo punto, sarebbe riduttivo, e non possiamo ignorare i continui riferimenti alla solitudine senile e allo scetticismo religioso, per non parlare della psicologia da reduce di guerra, che offrono interessanti spunti dell' Eastwood-pensiero. Temi “pesanti”, temi che il protagonista affronta inizialmente con un atteggiamento chiuso,ombroso, ma che, come in un romanzo di formazione in versione terza età, progressivamente ha modo di comprender meglio, per così giungere a una posizione agli antipodi da quella di partenza. Senza tediar troppo lo spettatore, grazie a parentesi ironiche sparse qua e là (Eastwood pare faccia il verso a numerosi personaggi che ha interpretato quando fa il gesto della pistola con la mano), ma non riuscendo a evitare di scivolare in qualche grossolana forzatura, vedi i figli di Kowalsky: così cinici e occasionasti, ai limiti delle caricature familiari de “I Simpson”. Da buon cowboy, Eastwood sa bene come aggiungere pepe alla sceneggiatura, e lo si avverte bene nell'ultima, cavalcante, mezz'ora, e il disattendere una conclusione alla “Gli Spietati”, nella forma ma non nella morale, gli rende onore. Forse è un film più “facile” di altri che ha fatto, ma il messaggio di speranza che ci lascia quando scorrono i titoli di coda è fortissimo, come poche altre volte nella sua filmografia .

VOTO: 7,5

THE WRESTLER

Regia di Darren Aronofsky. Con Mickey Rourke, Marisa Tomei
Drammatico, 109 min. - USA 2008




“Se vivi sempre al massimo, e spingi al massimo, e bruci la candela dai due lati...ne paghi il prezzo prima o poi.”

Randy Robinson (Mickey Rourke) è un wrestler che ha oramai passato la cinquantina, dal passato sportivo glorioso e dal nome di battaglia, “The Ram”, ancora ben impresso nella memoria degli appassionati. Ma a vent'anni dagli anni del successo, Randy vive in stato di semi-povertà, e si guadagna il minimo indispensabile per tirare avanti lavorando qualche ora in un supermercato ed esibendosi in palestre scolastiche davanti a poche decine di spettatori. Proprio a seguito di uno di questi eventi, viene colto da un infarto. Randy ne sopravvive, ma il medico gli preclude la possibilità di tornare sul ring. L'attempato atleta tenta così di rifarsi una vita cercando di conquistare Pam (Marisa Tomei), una spogliarellista di un club, pure lei non più nel verde degli anni, e di riallacciare i rapporti con la praticamente misconosciuta figlia Stephanie (Evan Rachel Wood).

Premiato con il Leone d'Oro a Venezia lo scorso Settembre, l'opera di Darren Aronofsky è un doloroso affresco di un uomo solitario sul viale del tramonto, che per la passione (ma forse più per la gloria) nei confronti di uno sport (ma forse più di un'arte), ha dato alle fiamme e lasciato bruciare ciò che lo circondava, a partire dagli essenziali rapporti umani con le persone care, finendo per scottare sé stesso. I soli amici che “The Ram” si ritrova a inizio film non sono altro che compagni di capriole che, per quanto a lui affezionati, lo vedono più che altro come un'icona, un oggetto di culto, di un'altra dimensione rispetto alla loro. Poco importa al nostro eroe, che può sopravvivere anche solo col calore umano di una folla di trenta persone che grida il suo nome, come ammetterà lui stesso infine. Partendo da una sceneggiatura sicuramente non originalissima (quanti film sulla boxe si ritrovano con una trama simile a questa?), Aronofsky prima fa un po' di luce sui retroscena di uno sport troppo spesso facilmente bollato come fiction, poi crea la giusta atmosfera da “quando le luci si spengono”, infine leviga i personaggi del suo film creando dei soggetti tanto sciagurati quanto credibili. Il risultato finale risponde alla domanda: ma che fine ha fatto quel popolare Signor X? Pur con toni assai pessimisti, questa risposta è una risposta per diversi casi valida. “The Wrestler” è ovviamente il film di Rourke: la parte principale gli sta cucita addosso sia dal punto di vista personale che dal punto di vista estetico (da ricordare che negli anni di declino artistico Rourke si era cimentato professionalmente nella nobile arte). La sua commovente interpretazione non è forse riuscita a fruttargli l'Oscar, ma Randy “The Ram” sarà certamente ricordato per anni dai cinefili. Bravissima anche Marisa Tomei, specchio al femminile del protagonosta. Colonna sonora tutta hard-rock eighties, con in coda struggente ballatona acustica di Bruce Springsteen. Aranofsky ci sbatte in faccia la scelta fra due modelli: bruciare di gettito, come Randy e i ragazzi di “Requiem for a dream”, o spegnersi lentamente? E Randy, fa veramente la fine del perdente, rinunciando a lottare per una vita comune e gettandosi in tuffo nelle braccia dell'inevitabile? A voi l'ardua sentenza.

VOTO: 8

THE WAVE - L'ONDA

Regia di Dennis Gansel. Con Jürgen Vogel, Frederick Lau, Max Riemel
Drammatico, 101 min. - Germania 2008



“Voi dite che in Germania una dittatura non sarebbe più possibile?”

Il professore di educazione fisica filo-anarchico Rainer Weinger (Jurgen Vogel) è chiamato a condurre nel suo istituto, per una settimana “a tema”, alcune lezioni sull'autocrazia. Queste lezioni divengono però vera e propria occasione per sperimentare su un gruppo di studenti i tipici aspetti di cameratismo: divisa uguale per tutti, profondo rispetto verso il capo, auto-esaltazione, discriminazione nei confronti degli estranei al gruppo. Il “gioco” sconfina nel giro di pochi giorni le mura dell'aula, sfuggendo dal controllo del professor Weinger e producendo risvolti tragici e inaspettati.

Prendendo spunto da un esperimento svolto realmente in un liceo californiano negli anni '60, il regista Dennis Gansel prova a ritrasportarlo ipoteticamente in una scuola tedesca dei nostri giorni, con il nobile fine di mettere in guardia le giovani generazioni dallo spettro della dittatura, sempre vegeto a dispetto di quanto queste potrebbero superficialmente credere. Premessa buona, ma che Gansel evidentemente non sa ben elaborare. Il suo film infatti finisce con lo strizzare troppo l'occhio agli svariati (e scadenti) film, telefilm per adolescenti che negli ultimi anni inondano cinema e reti satellitari. Ecco dunque presentarsi lo studente belloccio di turno, il bulletto al quale papà e mamma non fanno mancar niente, la ragazzina innamorata e confusa, prima vipera poi salvatrice redenta della patria, il disadattato sociale la quale scontatissima fine si capisce già dopo le prime battute. Il tutto poi può finire per compiacere coloro che amano gridare all'allarme per il disagio delle nuove generazioni, in un film dove esse vengono dipinte grossolanamente come dedite a feste a base d'alcol e droghe, indisciplinate in classe e prive di reali rapporti coi genitori. E per giunta facilmente manipolabili da un insegnante di educazione fisica che s'improvvisa fuhrer (eccezion fatta, guarda caso, per la studentessa alternativa coi rasta!). Una regia sufficientemente incalzante e un accompagnamento sonoro tutto sommato azzeccato non bastano a risollevare le sorti del film.

VOTO: 5

FROST/NIXON – IL DUELLO

Regia di Ron Howard. Con Frank Langella, Michael Sheen, Kevin Bacon.
Drammatico, 122 min. - USA 2008.


"Sto dicendo che se è il presidente a farlo, vuol dire che non è illegale"

1977. Il conduttore britannico David Frost (Michael Sheen), nell'intento di sfondare negli USA, paese dove non riscontra buon credito, organizza, a sue spese, una intervista televisiva tanto ambiziosa quanto complessa, la quale buona riuscita lo lancerebbe di certo nella storia del piccolo schermo. Frost vuole portare davanti le telecamere niente meno che l'ex-Presidente Richard Nixon (Frank Langella), dimissionario tre anni prima a seguito dello scandalo Watergate, per fargli dichiarare, davanti al popolo degli Stati Uniti, le mai ammesse colpe a seguito dell'inchiesta che lo coinvolse. Nixon vede invece nell'intervista, al di là del lauto compenso pecuniario, una possibilità di relegare nell'ombra lo scandalo e di rimettersi in gioco a livello politico, ed accetta. L'intervista assume le tinte di un duello tra due pugili, dove alla fine l'ex-Presidente cadrà, sotto il peso delle azioni politicamente scorrette da lui compiute.

Piccola premessa: con il termine “Watergate” si fa riferimento allo scandalo scoppiato negli USA a inizi anni '70 dovuto all'abuso di potere da parte della presidenza repubblicana Nixon per indebolire e screditare il partito democratico e gli altri oppositori della Casa Bianca, mediante un massiccio utilizzo di tecniche di spionaggio e d'intercettazione.
Ancor prima di approdare nelle sale cinematografiche, questa celebre intervista televisiva era stata portata a teatro dallo sceneggiatore Peter Morgan, colpendo a tal punto il regista Ron Howard da spingerlo a farne una trasposizione per il grande schermo. Il risultato è un lavoro certamente condotto con mano capace e con gran mestiere, ma riesce veramente a coinvolgere lo spettatore (non americano), che non ha vissuto sulla sua pelle quel caso che negli anni '70 scosse così tanto l'opinione pubblica a stelle e strisce? La pellicola scorre un po' troppo al ralenti, senza regalare grosse sorprese per gran parte dei suoi 120 minuti. Per fortuna, ci pensa un immenso Frank Langella a farci emozionare. Il suo Nixon è sì sempre l'uomo forte, di carattere, che è stato capace di raggiungere la Presidenza degli Stati Uniti, ma Langella riesce a tramutarlo in pochi attimi anche in un personaggio estremamente stravolto, smarrito, caduto nell'oblio. E' il Nixon che vediamo nelle ultime scene del film, che ha appena ammesso di aver tradito il popolo degli USA, che pare abbia la faccia gonfia dopo aver preso una scaricata di ganci da parte dell'avversario, e con lo sguardo vuoto da clochard in una notte d'inverno davanti ad un fuocherello. Ma, ancor di più, è il Nixon che saluta il pubblico dall'elicottero nel momento del congedo, la cui espressione radiosa , la cui maschera sorridente, improvvisamente si scioglie a cospetto della Storia: Nixon sarà il primo (e anche l'unico, per ora) Presidente degli USA a rassegnare le dimissioni. Il film di Howard è però non solo un film sulla debacle di un politico, ma anche, e forse soprattuto, sul potere della televisione, versatile mezzo che può divenire da mero entertainment a affilato strumento di ricerca della verità e della giustizia.

VOTO:6,5

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

Regia di David Fincher. Con Brad Pitt, Cate Blanchett
Fantastico, 159 min. - USA 2008.



“Nella vita niente dura. E questo è un gran peccato.”

Benjamin Button (Brad Pitt) nasce in “circostanze particolari”. Infatti, è un neonato con una sindrome assai anomala: è già vecchio e con le tipiche malattie dell'età avanzata. Il padre, vergognandosene, lo abbandona di fronte ad una casa di riposo per anziani. Qua, una donna di colore, se ne prende subito cura, sebbene paia chiaro che la creaturina non vivrà ancora a lungo. Sorprendentemente, invece, nella casa di riposo cominciano a rendersi conto che Benjamin, anziché invecchiare, ringiovanisce. Nonostante la sua peculiare caratteristica, Benjamin vive la sua vita senza farsi condizionare troppo dal suo status di diverso. Finisce con l'innamorarsi di una nipote di una anziana della casa, la rossa Daisy (Cate Blanchett), ma questo lo porterà inevitabilmente a scontrarsi con la dura realtà...


Il film, diretto dal bravo David Fincher (“Seven”, “Fight Club”), è basato su un racconto di F.S.Fitzgerald, datato anni '20. In passato, già altri registi (tra cui anche Spielberg) avevano tentato di portare sul grande schermo la storia, non riuscendo però nell'intento. Si parte con lo shock del neonato-anziano e la sua tendenza al ringiovanimento: premessa sicuramente originale, che rende la pellicola interessante già dai primi frangenti. Ma Fincher scivola poi un po' nel banale. In pratica, prende il personaggio principale e gli fa compiere le classiche cose che fanno gli orfanelli nei romanzi. Benjamin impara a suonare il pianoforte, Benjamin va per la prima volta in un bordello, Benjamin lascia casa in cerca di nuove esperienze, etc.etc.. Il diverso sta appunto nel fatto che qua l'orfanello è (dal punto di vista estetico) un vecchietto. Può risultare certamente curioso, ma il timore che una buona idea sia stata buttata alle ortiche comincia a crescere. Fortunatamente, il secondo tempo del film, dominato dalla drammatica (altro non poteva essere...) storia d'amore tra Benjamin e Daisy, va più in profondità. Al di là dell'intreccio sentimentale, allora diviene chiaro che il film è una malinconica meditazione sulla vecchiaia, sull'inesorabile scorrere del tempo (simbolico l'orologio della stazione) e, come diretta conseguenza, sulla morte. Il legame tra i due protagonisti è certamente forte già nei primi incontri, ma paiono veramente uniti solo quando le loro età si incrociano: nel resto della pellicola sono pervasi da una cupa solitudine degli animi. Se per Benjamin questo è ovvio, per Daisy, la ballerina mondana, non dovrebbe essere altrettanto, ma la condizione del suo amato pare le si rifletta. Stravolti dai magnifici effetti speciali che li fanno quando più vecchi quando più giovani, gli attori si muovono davanti alla cinepresa in modo esemplare, ma forse, più della superstar Pitt, colpisce l' interpretazione della bellissima Blanchett, capace, trasmettendo sempre semplicità, di calarsi dal ruolo di ragazza trasgressiva a quello di apprensiva madre. Da non passare inosservati i giochi di colore nelle suggestive inquadrature del regista.

VOTO: 7