lunedì 21 febbraio 2011

HEREAFTER

Di Clint Eastwood. Con Matt Damon, Cécile De France. USA 2010. Drammatico, 129 min.



Tre storie, unite dal medesimo minimo comune denominatore: la vicina presenza della morte. Maria è una importante giornalista francese che riesce miracolosamente a sopravvivere al tremendo tsunami indiano. Marcus è poco più che un bambino, con madre tossicodipendente, e perde l'amato fratello gemello in un fatale incidente stradale. George è un operaio americano dal potere magico e maledetto: può infatti vedere e comunicare con i trapassati. Tre storie che si svolgono in tre luoghi diversi, lontani, ma che finiranno irrimediabilmente per intrecciarsi.
La morte, nel suo lato più filosofico, pervade spesso le ultime opere del leggendario attore/regista americano, vuoi per erigerla a mezzo di vendetta (Mystic River), vuoi per dargli un timbro di sacrificio (Gran Torino), vuoi per aprire interrogativi relativi all'eutanasia (Million Dollar Baby). Con "Herefater", Eastwood sembrerebbe voler andare ancora più a fondo, fino al chiedersi cosa ci sia oltre la fatidica linea. Ma attenzione, la realtà è ben diversa: il film è soprattutto una meditazione sulle profonde ferite che lascia nell'animo la morte dei propri cari, e del percorso di trasformazione che può portare il tragico evento. Certamente un'ambizione non facile, digeribile non per tutti, quella di Eastwood (che si riflette un po' nella storia di Maria), ma che comunque, ben scandendo le tre vicende, che sono poi tre raffinate storie di formazione, riesce a far fluire bene le due ore. L'espediente paranormale, legato alla storia di George, è forse necessario, però pericoloso se maneggiato con poca cura. E infatti, si ha a volte l'impressione di assistere ad una deriva fantascientifica. Il finale ad acqua di rose stona un po' troppo con l'aria lugubre che si respira per tutto il resto del film, come la morale che la paura della morte si batte con l'amore pare fin troppo scontata. "Hereafter" offre certamente tanti validi spunti di riflessione su una tematica che per forza di cose ci è così ermetica, ma non è nemmeno quel capolavoro che tanta critica ha decantato.

★★★*☆☆
3,5/5

mercoledì 16 febbraio 2011

TALK RADIO

Di Oliver Stone. Con Eric Bogosian. USA 1988. Drammatico, 110 min.



Uno speaker radiofonico dalla lingua particolarmente tagliente, Barry Champlain, si trova davanti alla chance della vita: gli è stato infatti proposto di far trasmettere il suo programma, ricevibile solo in Texas, a livello nazionale. Ma dovrà fare i conti con la sua etica, che gli impone di non scendere a compromessi, con due donne, che distoglieranno la sua concentrazione, e con un ascoltatore razzista, poco in linea col suo pensiero.
Sceneggiato dallo stesso protagonista, Eric Bogosian, sotto la regia di Oliver Stone. La cavalcante interpretazione di Bogosian, che dà carne e (soprattutto)voce ad una tormentata canaglia, che tiene un piede dalla parte del predicatore sociale, e l'altro dalla parte di quel "Paese nei guai" che lui stesso accusa, fa presa bene all'inizio, ma vive poi di fortune alterne. Girando troppo intorno ad alcune tematiche, affrontate con arringhe dopo un po' prolisse, e sfiorandone altre con una certa titubanza, il film perde a tratti d'intensità. Il triangolo amoroso che s'innesta, fatto di nostalgia, gelosia, ingenuità, rancore, dà olio al motore. Morale della favola: la società fa schifo, e se proverai a metterla di fronte ad uno specchio, ci sputerà sopra.

★★★☆☆
3/5

lunedì 14 febbraio 2011

LE VITE DEGLI ALTRI

Di Florian Henckel von Donnersmarck. Con Martina Gedeck e Ulrich Mühe. Germania 2006. Drammatico, 132 min.



Berlino Est, 1984. Un importante esponente della DDR si invaghisce di un'attrice teatrale, legata però al drammaturgo Georg Dreyman. Per fare fuori il rivale sentimentale, incarica la Stasi, la polizia di Stato che spia i cittadini, di sorvegliare la vita intima di Dreyman, allo scopo di scovare anche il minimo indizio che possa portare ad una imputazione del delitto di complotto contro lo Stato. Incaricato del compito è l'abile capitano Gerd Wiesler, maestro in questo genere di operazioni. Ma nello svolgere il lavoro, il freddo Wiesler si appassiona così tanto alla storia d'amore tra il drammaturgo e l'attrice, che la sua fede nei confronti del regime comincia a vacillare.
Notevole finestra che dà all'ombroso mondo di quella che fu la Repubblica Democratica Tedesca, "Le vite degli altri" non è solo atto di accusa ad un regime che stritolava, in nome di un'ideologia, i più basici diritti dell'individuo dell'era moderna, ma è soprattutto un'amara ballata della solitudine, esaltata dall'impietoso confronto tra la vita di Dreyman, pregna di arte, passione e colori, e la vita di Weisler, grigia, piatta, meccanica. Una vita tanto sbiadita, che porterà Wiesler ad attaccarsi alle intime vicende dei suoi vigilati, nel tentativo di attingere da esse un po' di quella energia che alla sua esistenza manca. Ed è il film di due parabole che s'intersecano, ma che vanno in direzioni opposte: quella del capitano, che da uomo del regime diviene sostenitore di quegli artisti tanto temuti dai governanti, e quella dell'attrice Christa-Maria Sieland, che da amica dei dissidenti, diviene traditrice. L'asciutta interpretazione di Mühe si addice perfettamente alla figura di Weisler. Henckel von Donnersmarck dichiara la supremazia delle emozioni umane, senza però cadere nell'errore dello stereotipo, ma anzi sviluppandole in relazione al primordiale istinto di sopravvivenza. Un po' di ridondanza nel finale.

★★★★☆
4/5

mercoledì 9 febbraio 2011

K-PAX - Da un altro mondo

Di Iain Softley. Con Kevin Spacey, Jeff Bridges. USA 2001. Fantastico, 120 min.



Un misterioso uomo che asserisce di provenire da un lontano pianeta, il cui nome è K-PAX, viene fermato dalla polizia di New York e trasferito forzatamente in un ospedale psichiatrico. Il dottor Mark Powell si prende cura del nuovo paziente, ma la sua convinzione di avere a che fare con un malato mentale si fa, giorno dopo giorno, meno ferma.
Idea brillante, qualche situazione e battuta che non potrà far trattenere il sorriso, due attori protagonisti ben rodati. Che però non bastano, per far funzionare "K-PAX". Le macchiette dell'istituto psichiatrico sanno troppo di muffa: perchè l'elaborazione delle loro personalità si ferma così in superficie? Stessa puzza che, infondo, si sente sul tema dell'incolore matrimonio del dottor Powell. Pure l'ambivalenza Prot/Porter pare scricchiolante: così come raccontata, non offre particolari spunti di riflessione, tesi a scardinare chissà quale ermetico mistero (sempre che, non sia lo stesso spettatore a autoprodursi enigmi sulla traccia...). L'apprezzare l'interpretazione di Kevin Spacey, un po' scimmia curiosa, un po' tenero micio, è in realtà l'unico vero motivo che può portare a prendere visione del film.

★★*☆☆☆
2,5/5

sabato 5 febbraio 2011

I CINQUE STELLE DI TRONCO CINEMA: TAXI DRIVER

Di Martin Scorsese. Con Robert De Niro, Harvey Keitel, Jodie Foster. USA 1976. Drammatico, 113 min.



Un taxi transita per le buie strade della notte newyorkese. Alla sua guida c'è il 26enne Travis Bickle, ex-marine reduce del Vietnam. Travis soffre di depressione e insonnia, e passa le sue giornate in completa solitudine, scrivendo appunti sul suo diario e frequentando cinema a luci rosse. Si sente calato in un mondo nel quale non si rispecchia, e dove l'unica luce è Betsy, bionda attivista politica del candidato presidenziale Palentine. Travis riesce ad ottenere da lei un appuntamento, ma Betsy si rende presto conto di avere a che fare con un disturbato. Abbandonato, e in preda ormai completamente alla follia, il tassista decide di fare i conti, a modo suo, con la società che l'ha emarginato.

Una delle prime gemme di Scorsese (3 anni prima aveva dato vita al superbo "Mean Street"), cult che il tempo pare abbia reso ancor più celebre tra le nuove generazioni, forse per la sua immutata attualità in senso sociologico. "Taxi Driver" è il grido lancinante dell'uomo alienato, che affoga nella decadenza morale contemporanea, aleggiante tra i grattacieli delle grandi metropoli. Una "feccia", composta da politici, rapinatori e lenoni, che Travis fa fatica a guardare pure dallo specchietto retrovisore, e che preferisce rifuggire rinchiudendosi in romantiche fantasie, o dandosi alla pornografia. Esattamente, come dice Betsy, in piena contraddizione. La sua apparente mansuetudine giace su benzina, e sarà sufficiente la scintilla provocata dalle spalle che gli darà Betsy, per far divampare altissime fiamme. Allora ecco che la fata diviene nientemeno che la prostituta tredicenne Iris (giovanissima Jody Foster), vittima, come Travis, del feroce branco. Ma se Betsy avrebbe potuto portare ad una conciliazione più "rosa" con il resto del mondo, e riecco la contraddizione, Iris traccia un percorso ben più ardimentoso per il nostro, percorso più "rosso" che "rosa". Non c'è bisogno di attendere l'esplosivo finale per far salire il livello dell'adrenalina: tutta l'opera è imbevuta di una palpabile paranoia tale da mantenere la tensione alta già dai primi minuti.
Il capolavoro di Scorsese è ovviamente anche il capolavoro di De Niro. Praticamente one-man show, presente in quasi tutte le scene, l'attore, per calarsi meglio nel personaggio, studiò le malattie mentali e per qualche mese lavorò come tassista. Dando volto ad un fragile personaggio logorato dalla solitudine, la sua scena davanti allo specchio è una delle più celebri della storia del cinema.
Non chiaro se la conclusione sia frutto dell'immaginazione di Travis o corrisponda effettivamente alla realtà. Se si accede a quest'ultima interpretazione, allora Scorsese ha voluto puntare il dito verso una società capace di acclamare un folle come "eroe del giorno", quando il passo alla definizione "assassino criminale" sarebbe stato brevissimo. Nei secondi finali si può notare come gli occhi del tassista tornino a luccicare, da dietro il finestrino: segno che la riconciliazione coi suoi simili non è del tutto avvenuta, e che forse le strade di New York necessitino ancora di uno "spazzino" che le ripulisca dalla squallida feccia.

★★★★★
5/5

martedì 1 febbraio 2011

APRI GLI OCCHI

Di Alejandro Amenábar. Con Con Eduardo Noriega e Penelope Cruz. Spagna 1997. Thriller 117 min.



César è un ragazzo spagnolo di bell'aspetto, facoltoso, dalla risaputa fama di casanova. La sera della festa del suo compleanno conosce la giovane attrice Sofia, della quale si infatua immediatamente. Dopo aver passato una tenera notte con lei, accetta un invito da parte di una sua ex amante che però, accecata della gelosia, provoca un fatale incidente d'auto. César ne esce miracolosamente vivo, ma rimane deturpato in volto per sempre. Incapace di accettarsi, la sua vita diventa un inferno, mentre anche i suoi ricordi, i suoi pensieri e i suoi incubi cominciano vorticosamente a confodondersi. Si ritroverà rinchiuso in un istituto d'igiene mentale, accusato di omicidio.
Grandissimo successo in Spagna, l'opera seconda del cileno Amenábar conquista subito per una diegesi a puzzle, intricata al punto giusto, tra colpi di flashback e di sogno che stimolano la curiosità dello spettatore. Il dramma di César è il dramma di un "elephant man" d'oggigiorno, rielaborato in chiave psicofantastica. La malinconica e ineluttabile dichiarazione de "l'aspetto, alla fine, conta sempre" fa da contorno ad un thriller dalle tinte lugubri e dai risvolti non scontati. L'ingrediente della fantascienza, che tanto qua deve al genio di Philip K. Dick, viene aggiunto nella fase conclusiva. Componente si' affascinante, ma che arriva troppo tardi, assumendo un tono troppo diverso rispetto al restante 95% del film, e aprendo varchi ad alcune incongruenze. Ma è una critica ad un lavoro che convince. La stella della hermosa Penelope comincia a risplendere, grazie ad un innegabile talento. L'attrice sarà poi protagonista anche del remake hollywoodiano "Vanilla Sky", col super-divo Cruise.

★★★*☆
3,5/5